1917: la recensione di Mauro Lanari

“A strange game. The only winning move is not to play” (“Wargames”: Badham, 1983)

Una missione (suicida?) come viaggio esistenziale nella “terra di nessuno” fra due trincee (nemiche?), una “zona” che si pone fra il paesaggio spettrale di “Stalker” (Tarkovskij, 1979) e quello endopsichico di “The Dead Zone” (King, 1979; Cronenberg, 1983), un’area borderline fra la vita e la morte. Questo è il fulcro affascinante di “1917”, non il virtuosismo tecnico immancabile in funzione “Oscar bait” e ancor meno una spesso spudorata prospettiva da playstation, ma l’odissea per consegnar’il contrordine d’annullare un attacco, il senso di sospensione spaziotemporale, la deliberata sequela di momenti (quasi) vuoti, gli stall’insistiti, il “falso movimento” (“Falsche Bewegung”) della circolarità, ed è ciò che lo differenzia dal tragitto del milite Bardamu, del capitano Willard, del comandante Bowman, del capitano Miller (Spielberg continua a produrre Mendes con la DreamWorks). “I am a poor wayfaring stranger / While traveling thru this world of woe” (“Sono un povero viandante / Che percorre le strade di questo mondo doloroso”). Poc’oltre la sufficienza.

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