“There’s nothing to forgive.”
Una sola parola, affidata con gli occhi rossi di pianto ad una moglie ormai sfiorita e a due figli lasciati bambini e cresciuti senza padre: “perdonatemi” dice Solomon Northup, nero nato libero nello stato di New York, una volta tornato da quella famiglia a cui era stato portato via con l’inganno per essere ridotto in schiavitù dall’economia di un Sud che insisteva nel fare della compravendita dell’essere umano la sua arteria di sostentamento; una richiesta di quelle che non ti aspetti, il bisogno di fare ammenda per un’assenza durata 12 interminabili anni e per aver rotto la promessa fatta a sè stesso di non accontentarsi di sopravvivere in cattività anno dopo anno, ma anche un monito per una Nazione intera che non ha ancora smesso di espiare le sue colpe e prova a usare il cinema, strumento divulgativo per eccellenza, per educare ed educarsi.
Che nell’era di Barack Obama stiano fioccando i film dedicati al tema della schiavitù e del razzismo negli States non è certo un caso, ma laddove il momento è propizio per aprire un vaso di Pandora tenuto nascosto troppo a lungo è difficile affrontare simili memorie senza patinature retoriche: con Twelve Years A Slave( in Italia, 12 anni schiavo), tratto dalla autobiografia che lo stesso Solomon Northup scrisse poco tempo dopo la sua liberazione, Steve McQueen opta invece per un’estetica durissima che non lascia spazio all’immaginazione, illustrando con dovizia un diario del dolore pronto a rimandare indietro tutte le lacrime a colpi di frustate e a spargere sale su una ferita già bruciante.
Chiedersi che cosa un regista come Steven Spielberg ( Lincoln, ma soprattutto Amistad) avrebbe potuto fare con un simile soggetto è inevitabile: Schindler’s List, storica pellicola che presentava l’Olocausto presentato in una confezione non meno brutale di quella prediletta dal regista di Hunger e Shame ( e simile anche nei topoi narrativi relativi ad alcuni personaggi) non si risparmiava certo una spettacolarizzazione della sofferenza per mostrare tutta la mostruosità della Soluzione Finale, ma riusciva egualmente a ritagliarsi piccoli sprazzi di lirismo consentendo al pubblico di abbandonarsi a un pianto liberatorio.
Da sempre Interessata a un’esposizione senza filtri delle ferite del corpo e dell’anima, la regia asciutta di McQueen cerca volutamente di toglierci ogni spazio di decompressione: lascia Solomon appeso per il collo in un infinito e agghiacciante piano sequenza rendendoci spettatori paganti di un teatro dell’orrore che gli altri personaggi presenti sulla scena sembrano ignorare senza difficoltà, fissa la camera sulle carni martoriate della schiena della povera Patsey forzando nelle nostre orecchie le sue urla inascoltate, ci inchioda alla poltrona quasi con sadica insistenza per non farci distogliere lo sguardo dalla bestialità di un male che ci appartiene e che avremmo preferito non conoscere; un intento nobile e necessario in tutta la sua crudele realizzazione, che viene però rallentato nel raggiungimento del suo obiettivo ultimo da una storia dalla cadenza troppo descrittiva ed episodica per superare i limiti della rappresentazione pittorica e insinuarsi sotto la pelle.
Nel racconto dell’odissea di un uomo costretto a piegarsi alla malattia del sistema al punto da diventarne un passivo spettatore ( quando Solomon sceglie di cantare l’inno insieme agli altri schiavi la sua presa di coscienza è evidente), a funzionare meglio non è l’esasperazione del dolore ma un ricchissimo substrato di parole non dette e sentimenti soffocati, non tanto merito dello sceneggiatore John Ridley quanto del talento dello stesso McQueen e degli eccellenti attori al suo servizio; rischiarati dalla limpida fotografia di Sean Bobbitt, lunghi campi di silenzi si stagliano sulle piantagioni di cotone di un’afosa Louisiana dove il tempo è stato costretto ad arrestarsi e ogni giorno si ripete uguale al precedente, mentre le incarnazioni del bene e del male che le parole di Solomon avevano reso così nette sulla carta non possono che sfumarsi di fronte ai complessi caratteri dei padroni William Ford e Edwin Epps.
“He was a man above the ordinary height, some what bent and stooping forward. He was a good looking man, and appeared to have reached about the middle age of life. There was nothing repulsive in his presence; but on the other hand, there was something cheerful and attractive in his face, and in his tone of voice. The finer elements were all kindly mingled in his breast, as any one could see.” (Solomon Northup on William Ford, Twelve Years A Slave)
Un vero mistero quello di Padron Ford, uomo buono ma incapace di abbandonare le regole di un mondo apparentemente senza alternative che gli impone di scegliere fra la salvezza economica e il prezzo della vita di un uomo, sostenendo il peso della propria colpa con una maschera di pietas e ipocrisia che Benedict Cumberbatch riesce a cogliere al meglio nelle pochissime scene a sua disposizione; molto più spazio viene ovviamente riservato al tormento di Edwin Epps, un Michael Fassbender che con occhi celesti di follia e spietatezza riesce a trascinarci nell’abisso anche senza i tanti attacchi rabbiosi che caricano e dominano il suo personaggio; il fronte dei “padroni” viene degnamente arricchito dalle prove di un perfido Paul Dano( il Capo Carpentiere Mr Tibeats), un Paul Giamatti che si conferma ancora una volta uno dei migliori caratteristi in circolazione e Sarah Paulson, algida e tossica quanto basta per essere la degna moglie di Edwin Epps.
“Edwin Epps, of whom much will be said during the remainder of this history, is a large, portly, heavy bodied man with light hair, high cheek bones, and a Roman nose of extraordinary dimensions. He has blue eyes, a fair complexion, and is, as I should say, full six feet high. He has the sharp, inquisitive expression of a jockey. His manners are repulsive and coarse, and his language gives speedy and unequivocal evidence that he has never enjoyed the advantages of an education.”(Solomon Northup on Edwin Epps, Twelve Years A Slave)
Se all’esordiente Lupita Nyongo si chiede di raccogliere il lacerante grido di disperazione di Patsey, giovane schiava oggetto delle torture e del perverso desiderio del suo padrone, Chiwetel Ejiofor deve lavorare in sottrazione per rendere sullo schermo il dolore seppellito nel cuore di Solomon Northup: un gioco di sguardi lucidi e sottili, che illuminano il volto dell’uomo quando il destino gli restituisce finalmente le chiavi della libertà e quel nome che la schiavitù aveva subito occultato.
La sensazione che sulla tela manchi una pennellata importante resiste anche all’imponenza del tema raccontato( persino Hans Zimmer ci mette del suo con una colonna sonora per l’occasione davvero poco originale e incisiva) e forse si sarebbe potuto scavare maggiormente sul delicato contesto chiamato a fare da cornice all’incubo vissuto dal protagonista, ma il valore di un film come Twelve Years A Slave non è e non sarà mai in discussione: 160 anni dopo, senza assoluzione e con ancora tanto da imparare, proviamo a chiedere perdono a Solomon e a tutte le anime che invano hanno atteso la libertà, rivolgendoci al cinema perchè ci aiuti a preservare e a non dimenticare mai la memoria di ciò che è stato.
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