È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, la recensione

Il romanzo autobiografico dell’adolescenza del regista di La grande bellezza, tra i drammi privati, la scelta del cinema e la grande gioia dell’arrivo di Maradona a Napoli

è stata la mano di dio teaser trailer
PANORAMICA
Regia (4.5)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (4)
Direzione della fotografia (4.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3.5)

1986, Maradona è da pochi mesi campione del mondo e contro l’Inghilterra ha segnato un gol con la mano che farà storia. Paolo Sorrentino invece ha sedici anni e per la prima volta il padre gli permette di seguire la squadra in trasferta, ad Empoli, al posto del solito weekend con lui e la madre a Roccaraso, nella casa di montagna. Ma la sera prima della partita i genitori muoiono per una fuga di monossido di carbonio, causata dalla stufa. «È stata la mano di Dio», gli dice lo zio al funerale, intendendo che Maradona lo ha salvato. È l’evento cardine attorno a cui ruota il nono film del regista de La Grande Bellezza, premiato col Leone d’argento – Gran premio della giuria alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia e approdato su Netflix il 15 dicembre dopo l’uscita in sale selezionate del 24 novembre.

Nel raccontare la storia (romanzata) della sua adolescenza, dall’estate dell’arrivo di Maradona a Napoli e fino alla decisione di intraprendere la strada del cinema, Sorrentino si alleggerisce dei formalismi esasperati a cui ci ha abituato, come se la gioventù e il privato richiedessero una cura diversa, tanto che il prologo visionario – unica concessione alla vena immaginifica – è il segnale della schizofrenia di un personaggio.

È una questione che il film affronta consapevolmente, visto che l’autobiografia si fa anche (auto)critica e chiave di lettura di un’intera filmografia, come quando il fratello va a fare un provino per Fellini e poi riferisce una frase del maestro: «La realtà mi annoia, la realtà è scadente». O nel racconto del rapporto con il femminile, alimentato dalla stupefacente varietà dei corpi e dei caratteri familiari (dalla sorella invisibile, alla zia che “visibile” lo è fin troppo). O ancora nell’incontro con il regista Antonio Capuano, che viceversa cerca di sottrarlo all’indolenza dello sguardo («Vuoi fare il cinema, ma cos’è che hai da dire?») in una scena memorabile, vagamente surreale e perfettamente felliniana.

In generale, il film è pervaso da una grande nostalgia e tenerezza: tutti i personaggi, anche i più grotteschi, anche i meno raccomandabili (il contrabbandiere), sono illuminati dal rimpianto. Ed è la stessa sorte che tocca ai panorami di Napoli, dagli angoli male illuminati del porto alle grandi vedute del Golfo, come se ogni scena, ogni luogo e ogni volto fossero il pagamento di un debito di gratitudine.

Così, scegliendo la strada del coming of age e risalendo alle radici della sua ispirazione – quindi esplicitando il proprio debito artistico con Fellini, il proprio debito metafisico con Maradona e il proprio debito sentimentale con i suoi cari -, Sorrentino trova una leggerezza senza precedenti e una verità cristallina. Spoglia il suo cinema e lo ritrova in purezza.

Foto: The Apartment, Fremantle

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