Mary Shelley (Elle Fanning) è figlia dello scrittore di successo William Godwin e di una madre altrettanto importante, Mary Wollstonecraft, una voce importante per il femminismo e la consapevolezza teorica e critica del movimento. I racconti misteriosi e cupi la appassionano, ma è la storia d’amore con il ribelle Percy Shelley (Douglas Booth) a cambiarle la vita, permettendole di sperimentare un rapporto travolgente ma anche una sofferenza abissale, uno struggimento carico di dolore e smarrimento che ispirerà la sua creatura prediletta, tra i mostri più celebri di sempre: Frankenstein.
La regista Haifaa Al-Mansour, cineasta dell’Arabia Saudita e autrice di quel gioiello combattivo e infantile che era La bicicletta verde, è una voce singolare già di suo (prima regista in un paese dove non esistono cinema). Non poteva pertanto che destare ancor più curiosità se associata a un progetto come il biopic sull’autrice di Frankenstein o il Moderno Prometeo, uno dei testi chiave della cultura dell’800, scritto dalla giovanissima Mary Shelley quando era appena diciannovenne.
Presentato in anteprima al Toronto International Film Festival e poi in Italia al Torino Film Festival, si tratta in realtà di un ritratto molto levigato e convenzionale, che estingue molta della complessità di questa figura unica della storia della letteratura per puntare sul fascino tenebroso di una storia d’amore incandescente, della quale viene amplificata la componente adolescenziale, il senso di stupore ma anche di terrore che pian piano sopraggiunge e la corrode.
Le concessioni al teen drama non sono dunque poche, anche se nella seconda parte il film della Al-Mansour sembra recuperare il focus letterario soffermandosi sulla genesi del capolavoro della Shelley. Lasciando così intravedere il fuoco sacro della scrittrice, il suo genio furente destinato a fare epoca, ma anche le inevitabili contraddizioni di un tempo in cui era ancora piuttosto difficile far coesistere bellezza artistica e mostruosità, figuriamoci se nella penna e nella mente di una donna.
La luce che squarcia il buio, per la scrittrice, è di fatto solo la propria forza ereditata da una madre vigorosa e combattiva, che morì di setticemia pochi giorni dopo averla data alla luce. Questa specificità eroica e femminista, annegata nella love story per una discreta porzione di minuti, approda per fortuna a un finale più animoso e meno armonioso, dove si intravedono i segni logoranti del tempo e del tormento artistico che scavano in profondità e tracciano solchi indelebili ed Elle Fanning può finalmente dar prova del suo talento nella maniera più vibrante e passionale possibile. Aderendo ai sussulti e alle fragilità della sua Mary Shelley, alla larga dal classicismo rassicurante della confezione che l’aveva fin lì fatta da padrone.
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