Terry Gilliam: «Schiavo della tecnologia? Mai»

Nel suo ultimo film, The Zero Theorem, punta il dito contro l’universo hi-tech. E dire che lui non molla mai il suo iPhone. Chiacchierata (anche in italiano) con il regista più visionario del grande schermo

Chi lo conosce, sia sul lavoro sia nel privato, sa quanto Terry Gilliam sia una persona trasparente. «Ciao, come stai?», mi saluta in un italiano pressoché perfetto quando scopre la mia nazionalità, anche se poi chiarisce: «A dire il vero conosco appena la vostra lingua. Quando stavo ristrutturando la mia casa in Umbria ho iniziato a studiarla e impararla per poter comunicare con gli operai. Ma adesso tutti anche in Italia conoscono l’inglese, per cui ho lasciato perdere. È triste… mi sono impigrito».
Ha 73 anni (portati egregiamente) e continua a essere diretto, spontaneo, senza filtri, fedele ai suoi ideali. Gli stessi che lo hanno costretto ad abbandonare Hollywood (nato a Minneapolis, è cresciuto a Los Angeles) per trasferirsi a Londra, dove ha costruito la sua carriera, prima come membro (l’unico di origine americana) dei Monty Python e poi come solista.

Gilliam torna al cinema a distanza di cinque anni da Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo, passato alla storia soprattutto per via della morte prematura di Heath Ledger, quando ancora erano in corso le riprese; lo fa con un film, The Zero Theorem (in sala dal 27 marzo) che, pur non avendo la forza dirompente del messaggio e la potenza visiva di Brazil – considerato il suo capolavoro –, sotto certi aspetti lo ricorda molto. Perché anche in questo caso siamo in un universo distopico, dove l’uomo è schiavo della tecnologia e combattere il sistema sembra impossibile. Missione affidata al tedesco Christoph Waltz (l’attore scoperto da Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria prima, e Django Unchained poi), chiamato a interpretare l’hacker informatico Qohen Leth, o semplicemente Q, a cui il Management che governa il suo mondo (ha il volto di Matt Damon) chiede di dimostrare l’estinzione a cui è destinato l’universo.

In molti hanno definito The Zero Theorem l’ideale conclusione di una trilogia iniziata con il citato Brazil e proseguita con L’esercito delle 12 scimmie. «È quello che piace inventare alla stampa» afferma divertito il regista. «In realtà, non è così, almeno non nelle intenzioni. Saremmo stati fin troppo accademici e intellettuali altrimenti. Però in effetti questo film ha molti più punti di contatto con Brazil di quanto avessi immaginato. Perché racconta di un mondo che ci ha fatto prigionieri e che ci ha privato della nostra umanità; mi riferisco all’era di Internet, che promette di connetterci e invece ci isola profondamente. Soprattutto ci consuma, specie i giovani che di questa era sono figli. Negli ultimi 15 anni la tecnologia ci è esplosa in mano e ancora non sappiamo esattamente dove ci porterà».

Best Movie: A questo proposito vedo che con sé ha un iPhone…
Terry Gilliam: «Ho registrato parte del film con questo! E ho potuto inserire in voice over alcune battute che Mélanie Thierry (altra interprete della pellicola, ndr) mi ha mandato tramite file audio mentre si trovava dall’altra parte del mondo. Diciamolo, spesso la tecnologia ci para il culo».

BM: Quindi anche lei ne è un po’ schiavo?
TG: «Praticamente vivo al computer; potrei stare lì tutto il giorno, perché c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, da esplorare. La tecnologia è fantastica, ma devi decidere quanto potere vuoi concederle. Io ad esempio mi astengo dai videogiochi, perché so che diventerebbero una droga. Quindi no, non ditemi che sono un geek!». (ride)

BM: Le fa paura questo mondo sempre più hi-tech?
TG: «Sicuramente questi strumenti stanno accelerando le nostre vite. Ed è pericoloso, perché non c’è più il tempo di pensare. Si comunica continuamente e velocemente; non ci si gode più il momento. Vedo persone che vanno al cinema e dopo la prima scena stanno già twittando: “Gran film!”. Lo fanno per provocare la reazione degli altri, per sentirsi connessi: per me è folle!».

BM: Dal film emerge che uno degli effetti collaterali di questo dominio tecnologico è la disumanizzazione delle relazioni…
TG: «Ormai anche quelle sono virtuali, perché ci si nasconde dietro identità finte; degli “alias” spesso frutto di quegli standard estetici che la società impone e che impediscono di essere se stessi».

BM: The Zero Theorem, però, si chiude con un messaggio di speranza. Dunque si può sopravvivere a questo mondo?
TG: «Non vi darò la mia versione della scena finale. Voglio che il film interroghi lo spettatore – “Quanto vogliamo essere controllati dalla tecnologia?” –, così che ognuno la interpreti secondo la sua soggettiva. SPOILER Diciamo, però, che alla fine Q riscatta la propria dignità, è certamente più forte e riesce ad avere un maggior controllo sul mondo virtuale. FINE SPOILER. Ecco, lo sapevo, alla fine ve l’ho detto».

BM: Lei usa i social network?
TG: «No. Odio twittare. Ho Facebook sul mio computer fisso, ma lo uso solo per la promozione dei film».

BM: Cosa pensa delle nuove tecnologie al cinema: del 3D e della CGI?
TG: «Non mi dispiacciono, perché credo che ci siano dei film “tecnologici” realmente incredibili. Il fatto è che ripropongono sempre le stesse idee: quanti combattimenti, quanti inseguimenti dobbiamo ancora vedere sul grande schermo? Quando gli effetti speciali diventano l’unica ragione per fare una pellicola, ecco, questo mi sembra assurdo. Si tratta di prodotti che devono raggiungere il grande pubblico, intrattenerlo, e mandarlo a casa su di giri. Io voglio fare l’esatto opposto: far pensare, riflettere, chiedersi: “Che c***o è?”».

BM: Che film guarda?
TG: «Sfortunatamente vecchie pellicole. Oppure quelli di amici, come Pacific Rim di Guillermo Del Toro e The Lone Ranger con Johnny Depp, che ho recuperato da poco. Anche se spesso penso che il loro talento potrebbe essere usato diversamente».

BM: Passando dal profano al sacro: che rapporto ha con la religione? Glielo chiedo perché è un altro tema piuttosto centrale in The Zero Theorem.
TG: «Sono cresciuto in chiesa, ho ricevuto un’educazione cristiana perché i miei erano presbiteri e ho letto la Bibbia due volte. Da grande, però, mi sono reso conto che le persone che frequentavano quei luoghi di culto erano limitate nel loro modo di pensare. Oggi stranamente un po’ questo mi manca, perché la religione ha perso la sua natura di esperienza condivisa e non costituisce più il sostrato culturale alla base della società. L’Italia è piena di chiese, ma la maggior parte è piena di turisti. Nel film la casa di Q è una cappella sconsacrata, in parte cattolica in parte ortodossa… Alcuni capiscono questo tipo di scelta iconografica, altri no. Per me ha un senso ed è un modo per ribadire che, dal momento che il culto ha perso il suo potere, ognuno trova il modo di rimpiazzarlo con qualcos’altro. Il consumismo e la tecnologia non sono altro che nuove religioni».

BM: C’è qualcosa di autobiografico nei suoi film? Ad esempio questa lotta al sistema presente sia in Brazil sia in The Zero Theorem
TG: «Nei miei film inserisco sempre situazioni o sensazioni che io stesso ho provato. In entrambi i casi si parla di lotta al sistema… ma il risultato è diverso».

BM: Si è mai pentito di aver lasciato gli Stati Uniti? (Nel gennaio del 2006 ha definitivamente rinunciato alla cittadinanza americana)
TG: «Assolutamente no. Adesso in due ore posso essere a Venezia, in una a Parigi. È fantastico!».

BM: Ha trovato il senso della vita?
TG: (ride) «Non ci penso. Continuare ad avere una vita per me è già più che sufficiente».

(Foto: Getty Images)

 

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