Da febbraio 2016, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie “A scena aperta”, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.
Il racconto militare di Mine è un inganno. Fabio Guaglione e Fabio Resinaro ci lasciano intendere che vedremo la storia di un militare rimasto bloccato con un piede sopra una mina in mezzo al deserto, un high concept movie insomma, cioè un film basato tutto su un’idea forte e dallo sviluppo narrativo estremamente chiuso. Ma Fabio & Fabio ci stanno mentendo, sappiatelo. Quello che vogliono è portarci fuori dalla nostra comfort zone di narrativa di genere per spiazzarci con un film imprevisto ed imprevedibile.
È per questo che tutte le critiche che si potrebbero muovere alla resa realistica della situazione, lasciano il tempo che trovano: perché Mine non è un film di guerra e, a dirla tutta, ha anche poco a spartire con pellicole a cui è stato accomunato, come Buried ed Open Water. Mine è un film che racconta la storia di quei passi che dobbiamo fare nella nostra vita e che certe volte non abbiamo il coraggio di fare. Di quei momenti di stasi in cui siamo bloccati tra quello che è stato e quello che dovrà essere. Mine è una metafora e questo viene ben esplicitato in moltissime belle scene del film. Che però noi non esamineremo. Perché se da una parte è verissimo che il grande merito della pellicola dei due registi italiani sia stato proprio quello di andare in una direzione imprevedibile, è altrettanto vero che l’altro grosso merito è la qualità tecnica con cui è girata.
È per questo motivo che tra le molte sequenze pregne di significato che si potevano prendere in esame, ho scelto quella che ha il minore livello metaforico e simbolico, ma la più alta spettacolarità. Non è semplice decidere dove inizia una sequenza in un film che è, sostanzialmente, composto da una sola enorme scena, ma direi che possiamo partire in campo lunghissimo sul deserto (1). Il nostro protagonista, l’ottimo Armie Hammer, è solo, in piedi, fermo. Una figurina minuscola e scura che si staglia contro la sabbia gialla e sotto un cielo azzurro. Hammer ha al collo uno di quei microfoni che captano direttamente il suono dalle vibrazioni delle corde vocali e sta parlando con i suoi superiori per organizzare un operazione di salvataggio (2). Non è contento. I campi lunghi si alternano con i primi e i primissimi piani (3). In sottofondo una musica d’ambiente discordante sottolinea la drammaticità della situazione e la difficoltà emotiva del personaggio. Il dialogo è fitto e pieno di informazioni che lo spettatore deve capire bene, perché necessarie alla comprensione degli eventi che accadranno dopo.
È una scena difficile perché rischia di essere noiosa, specie perché giocata sostanzialmente solo con tre inquadrature; e invece, grazie ad un ottimo montaggio e ad un perfetto contrappunto sonoro, tutto fila liscio e la tensione sale fino a quando la comunicazione non viene interrotta e la musica tace. Hammer deve organizzarsi e prendere il controllo della situazione. Esamina quanto tempo deve riuscire a resistere, cerca di ottimizzare le sue risorse (4). Ora la narrazione passa dai dettagli stretti a un movimento circolare attorno al protagonista, che nel frattempo si è inginocchiato, assumendo la posa iconica che poi è il simbolo di tutto il film (5). Il marine alza finalmente lo sguardo, tornando a rivolgere l’attenzione verso quello che c’è davanti a lui, e adesso anche noi lo vediamo, mentre il tema musicale esplode. La madre di tutte le tempeste di sabbia si sta per abbattere sulla scena (6). L’immagine è davvero molto potente, molto ben calibrata, molto inusuale nella sua millenaristica epicità per il nostro cinema. È una scena da Vecchio Testamento. L’ira divina si sta per abbattere su un piccolo uomo solo che può solo affannarsi nel cercare di trattenere a sé tutto quello che è importante e, nel contempo, non lasciarsi trascinare via lui stesso.
Momenti convulsi, molta camera a mano. La musica diventa una implacabile marcia con squarci lirici ed epici. La tempesta è quasi sopra di noi. Una bella prospettiva centrale con Hammer puntellato a terra come una specie di tenda nel deserto, poi il vento e la sabbia che lo celano alla nostra vista, e alla fine investono anche noi (7). Il soldato perde la presa, un braccio viene sollevato dal vento e lui lotta disperatamente (8). Noi lo osserviamo dal basso, girandogli un poco attorno in un pregevole “baysmo” (da Michael Bay, ovviamente): è il momento peggiore, ma poi la tempesta passa, il vento si placa e torniamo a vedere l’azzurro del cielo (9). Il soldato è ancora solo, bloccato in mezzo al deserto, alle prese con i suoi demoni. Le poche cose che aveva sono tutte sparse attorno a lui, troppo lontane per essere raggiunte (10).
Il film torna alla sua narrazione formale, pronto a lanciarsi verso il suo nucleo intimo e personale. Intanto, però, lo spettacolo è stato servito splendidamente. Tra tanti bei momenti di Mine, questo è quello più semplicemente cinematografico, che però ci racconta che Fabio & Fabio non sono solamente due registi autoriali che vogliono servire i loro contenuti e le loro storie, ma anche due talenti impudici, capaci di mettere in atto visioni che i loro colleghi italiani faticano a pensare.
Se mi doveste chiedere se Mine mi è piaciuto in senso assoluto, vi dovrei dare una risposta molto articolata perché il film è indubbiamente buono ma è lontano da me negli intenti; se invece mi doveste chiedere cosa ne penso della regia di Mine, vi direi che è ottima. Senza “sé” e senza “ma”.
Ottima.
Mine sbarca in home video dall’8 febbraio. Di seguito, gli extra del Blu-ray:
- Mike-Is-Mine
- Scene tagliate e estese
- QuantuMine: an exisistential reprogramming
- Il viaggio dell’eroe immobile
- L’altro lato della duna: VFX Breakdown
- Mineboards: dalla pagina al frame
- Teaser e Trailer