Storia di mia moglie: la recensione del film di Ildikó Enyedi con Léa Seydoux

Un mélo d'altri tempi, con nel cast anche Gijs Naber, Louis Garrel e i nostri Sergio Rubini e Jasmine Trinca, ora nelle sale dopo il passaggio in Concorso al Festival di Cannes 2021

Storia di mia moglie

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PANORAMICA

Un capitano di una nave mercantile (Gijs Naber), per scommessa, chiederà di sposarlo alla prima donna (Léa Seydoux) che entra nel locale in cui si trova, dando inizio a una lunga storia d’amore.Tratto dal romanzo omonimo di Milán Füst (datato 1942), Storia di mia moglie, presentato in Concorso allo scorso, 74esimo Festival di Cannes, è l’opera seconda della regista ungherese Ildikó Enyedi dopo il folgorante Corpo e anima, Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2017. 

il fatto racconta un legame di coppia travagliato a partire da un antefatto curioso, dalle premesse quantomeno stimolanti nel loro distillato di mistero, sguardi (ancora spalancati) sull’ignoto rappresentato dall’altro da sé, emozioni trattenute e proiezioni luccicanti di un futuro ancora tutto da scrivere. Peccato però che il racconto cinematografico, esattamente come la vicenda personale dei due protagonisti, conosca lungo il suo dispiegarsi più grigiore e delusioni che altro, in un andirivieni sempre più esacerbato di contraccolpi e tensioni che però Storia di mia moglie non riesce mai a restituire con vividezza.

È negato ogni gancio emotivo autentico con lo spettatore, al quale non rimane altro in mano, lungo una durata inutilmente diluita e spropositata, che i brandelli sfiancanti di un mélo d’altri tempi che non si guarda allo specchio alla ricerca di supposta vanità d’autore ma non riesce neanche, nella sua altrettanto presunta classicità (ben più prossima, in realtà, all’anacronismo artificiale), a lavorare efficacemente di archetipi e sottrazione. 

L’ostinazione di Storia di mia moglie è tutta per i languori del talamo, le sospensioni del desiderio e l’incedere faticoso della morale, ma certe malinconie venate di crudeltà e contraddizioni, che potrebbero prestare il fianco a dei lampi di senso, non affondano mai la lama nella carne e lo stile si trincera in un accademismo ecumenico da co-produzione europea: un impianto al servizio di un esempio di feuilleton postumo che si limita a ingigantire nella forma, spossandoli e addirittura stremandoli, ma soprattutto marchiandoli terribilmente a fuoco e facendone quasi un contrappunto a tratti involontariamente parodico, contrassegni e stereotipi del romanzo ottocentesco. 

L’inglese del film, visto in originale, è naturalmente posticcio, visto che non è la prima lingua di nessuno degli attori in scena per le tre spropositate ore di durata, che comunque snocciolano un Louis Garrel chiamato a timbrare il cartellino col suo apporto come di consueto carismatico e seducente e, a marcare il contributo produttivo nostrano, anche un Sergio Rubini decisamente sopra le righe e un’impalpabile Jasmine Trinca. 

Tutte emanazioni blande quando non addirittura macchiettistiche, che la dicono lunga su un’operazione che vorrebbe abbracciare, a suon di caselle attoriali da riempire, anche la totalità di uno spirito a vocazione europea, da erigere intorno alla contrapposizione di prammatica tra l’algida ma digrignante ferocia di un capitano di fregata olandese e il potere seduttivo, elettrico e spossante, della sua sposa francese: ne deriva però soltanto una parabola stantia e opaca, che non riesce mai a dissimulare, nonostante la coltre e la coperta lunga del calligrafismo d’antan, la sua pressoché totale assenza di magnetismo e legittimazione espressiva e poetica. 

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