È morto all’età di novant’anni, alle Bahamas e circondato dall’affetto dei suoi familiari, Sean Connery, attore scozzese noto soprattutto per aver interpretato il personaggio di James Bond in sei film della saga. Connery è stato il primo interprete di Bond sul grande schermo e, indiscutibilmente, il più amato dal grande pubblico.
Thomas Sean Connery era nato a Edimburgo, in Scozia, nel 1930. La madre era una donna delle pulizie, il padre un camionista e contadino. Da ragazzo Connery ha fatto i mestieri più disparati: bagnino, muratore, lattaio, verniciatore di bare, bodyguard, modello. Tentò anche la strada della Marina Militare Britannica, ma non superò le visite mediche per un’ulcera gastrica. Di quel periodo giovanile sopravvivevano, sul suo braccio destro, i tatuaggi un po’ naïf Scotland Forever (Scozia per sempre), mai apparso al cinema per volere dell’attore, e Mom & Dad (Mamma e papà).
Connery era alto 1,89 metri, si dice che fosse molto bravo a giocare a calcio (in vita osò cambiare squadra e tifo: dal Celtic agli odiati rivali dei Rangers, un sacrilegio), si cimentò anche con la danza ma la calvizie precoce lo portava, già a vent’anni, a dimostrare molti più anni della sua età reale e a non corrispondere all’immagine dell’atleta perfetto. Quest’elemento di fascino sarà, secondo molti, alla base dell’esito stratosferico del suo James Bond, che arrivò dopo la partecipazione a Mister Universo come rappresentante della Scozia (arrivò terzo), i trascorsi iniziali nel teatro inglese e i primi ruoli televisivi che gli valsero una piccola ma già consistente notorietà.
Quando Albert Broccoli e Harry Saltzman lo scelgono, nel 1962, per interpretare l’immortale spia nata della penna di Ian Fleming in Agente 007 – Licenza di uccidere, Connery ha 32 anni. Da quel momento diventa il perno della longeva saga lo porterà a essere una delle massime icone del cinema di tutti i tempi, con un’identificazione totale e con pochi eguali tra attore e personaggio, e una fama da sex symbol planetario (in un sondaggio in cui si chiedeva di votare un possibile Bond era però arrivato, ironia della sorte, di nuovo terzo).
Fleming era molto scettico su di lui, perché Connery gli sembrava troppo rude, prestante e belloccio per la parte («Era un terribile snob… e una persona straordinaria», dirà Connery al suo funerale). Fu la moglie di Broccoli, Dana, a spezzare più di una lancia a suo favore e bastò il primo film, Licenza di uccidere, per convincere anche lo scrittore della bontà della scelta. Il modo di camminare di Connery colpì, in particolare, proprio Albert Broccoli.
Il regista Terence Young, dal canto suo, ebbe il merito di plasmare Connery fin da subito, tramutando un ragazzone scozzese con tante abilità fisiche nel gentleman britannico più serafico, glaciale, sexy e distaccato che si fosse mai visto sul grande schermo, seducente con le donne e implacabile coi villain di turno: un eroe d’azione senza precedenti, di cui negli anni ’60 della rivoluzione sessuale era impossibile non innamorarsi, un crocevia fondamentale della cultura pop del periodo che beveva Martini in piedi e indossava gli abiti di estrema perizia sartoriale di Anthony Sinclair. Il suo era un Bond rigido, altero, privo d’ironia, tutto d’un pezzo, un monumento al carisma maschile del secolo scorso, il proverbiale uomo che non doveva chiedere mai. «Forse non sono un buon attore, ma qualsiasi cosa avessi fatto sarebbe stata peggio», dirà Connery di se stesso. A differenza di Cary Grant, prima scelta e fonte d’ispirazione di Fleming, non ebbe paura di un ruolo in grado di marchiare a fuoco la carriera di qualsiasi attore.
Il successo, sul quale non è detto che i produttori credessero tantissimo in un primo momento (eravamo all’inizio dei sixties e si trattava, a tutti gli effetti, di creare un nuovo modello di mascolinità, intransigente e distaccato), arrivò soprattutto dal film successivo, A 007, dalla Russia con amore (1963). Connery tentò di abbandonare Bond per ben due volte: la prima nel 1969 quando fu sostituito per un solo film da George Lazenby per Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà (parentesi straniante e poco convincente per il pubblico); la seconda nel 1983 quando tornerà, a 53 anni e dopo un corteggiamento spietato, a vestire i panni di Bond per l’ultima volta in Mai dire mai, remake fuori dal ciclo ufficiale di Agente 007 – Thunderball (Operazione tuono).
A seguire cederà il testimone a Roger Moore, l’unico ad aver recitato in più Bond movie di lui, che incrinerà il personaggio con ampie spruzzate d’ironia totalmente assenti nella caratterizzazione tutta al maschile e compatta di Connery: uno slittamento necessario dopo la fine della Guerra Fredda e le “scandalose” lacrime versate da Lazenby alla fine del suo brevissimo intermezzo. Bond dopotutto è sempre stato uno straordinario sismografo dei tempi, ben oltre la qualità e la resa estetica dei singoli film, fino alla durezza plumbea e muscolare del suo ultimo interprete, Daniel Craig, e alla più recente eventualità, suggerita in tante occasioni ma mai confermata dai produttori della serie, che a interpretare 007 fosse un’attrice donna o un attore di colore.
Una volta lasciatosi alle spalle 007, Connery ha recitato per grandi autori come Alfred Hitchcock, Sidney Lumet, John Huston. In Marnie (1964) di Hitchcock interpreta un uomo alle prese con le turbe psicologiche dell’amata, una sorta di rilettura torbida e al veleno per topi del modo sprezzante, disinvolto e disinteressato con cui Bond saltava dal letto di una donna all’altra senza colpo ferire. Negli anni ’70 per Lumet fu ancora una volta un personaggio granitico, un durissimo commissario di polizia, in Riflessi in uno specchio scuro (1973), e il colonnello Arbuthnot in Assassinio sull’Orient Express (1974), senza dimenticare, nello stesso anno, la leggendaria prova in costume per John Boorman in Zardoz.
Invecchiando Connery è senz’altro migliorato come attore, affinando corde e registri pur muovendosi tra film decisamente disparati e operazioni di genere non sempre memorabili, e ha avuto l’intelligenza e la sapienza di non rimanere schiacciato dal suo ruolo più celebre: la sua maturità artistica e anagrafica non coincise con lo spegnimento della sua icona, ma con un territorio fertile in cui reinventarsi di continuo con ruoli da mentore, padre nobile (come il celebre papà dell’Indiana Jones di Harrison Ford), sovrani (ne interpretò quattro diversi, tra cui la titanica prova ne L’uomo che volle farsi re), perfino da Robin Hood stanco e crepuscolare in Robin e Marian (1976) accanto a Audrey Hebpurn.
I ruoli di Guglielmo da Baskerville ne Il nome della rosa (1986) dal romanzo di Umberto Eco (studioso attento e sferzante del “fenomeno Bond”, non a caso) e del poliziotto senza macchia e senza paura Jimmy Malone in The Untouchables – Gli intoccabili (1987) di Brian De Palma tornarono a saldare la sua presa iconica sul grande pubblico anche nel decennio successivo: il secondo dei due gli valse anche la consacrazione dell’Oscar e del Golden Globe come miglior attore non protagonista.
La sua avvenenza col passare del tempo non è mai tramontata (a detta di molte donne, si è accresciuta), nel 1999 la rivista People lo nominò “uomo più sexy del secolo” e le sortite erotiche al cinema si rinnovarono anche oltre i sessant’anni con Michelle Pfeiffer in Caccia a Ottobre Rosso (1990) e al fianco di Catherine Zeta-Jones in Entrapment (1999), declinazione pacchiana e fuori tempo massimo del Bond movie dove a impressionare sono soprattutto il fascino e l’eros senza tempo di Connery, sornione ladro sulle tracce di Rembrandt. Il suo testamento artistico è però probabilmente Scoprendo Forrester (2000) di Gus Van Sant, dove interpreta, due anni prima di essere nominato Sir, uno scrittore premio Pulitzer ma ormai fuori dai radar e lontano dai riflettori: sorte che a Connery in vita non toccò mai, se non negli ultimi quindici anni e per sua scelta.
Nel 2005 infatti, stanco dell’industria cinematografica e dopo il fiasco de La leggenda degli uomini straordinari (2003), si ritira dalla recitazione (salvo tornare a doppiare Bond in un videogioco, ulteriore piccola licenza) e rivela di aver rifiutato i ruoli di Gandalf nella trilogia de Il Signore degli Anelli e di Albus Silente in Harry Potter per scarso interesse o poca fiducia nei progetti. Tullio Kezich, decano della critica cinematografica italiana che pure non apprezzò gli sviluppi seriali e industriali della saga di Bond, ebbe a dire di lui: «Connery è sempre Connery. Ovvero un attore che ogni volta riesce a illuderti di avere incontrato un essere umano».
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