Bella (Sofia Kappel) arriva a Los Angeles dalla Svezia con il sogno di diventare la prossima superstar del porno. La sua sfrenata ambizione, tuttavia, la porta in ambienti sempre più pericolosi, e si trova costretta a conciliare i suoi sogni di affermazione con la realtà e il bisogno disperato di follower e ammiratori.
Audace e provocatorio lungometraggio d’esordio di Ninja Thyberg, Pleasure riporta la regista alle atmosfere del suo omonimo cortometraggio vincitore al Festival di Cannes, descrivendo il mondo del cinema hard con gli occhi di una giovane donna in cerca di fama nella Città degli Angeli. Lo sguardo sull’industria pornografia e sul suo dietro le quinte è particolarmente impietoso e l’esperienza di Bella Cherry è restituita attraverso una puntuale dissezione di dialoghi, scene e situazioni, molte delle quali vissute davanti l’obiettivo e praticamente tutte dal taglio gelido, chirurgico e anaffettivo, tanto che perfino (e verrebbe da dire soprattutto) ogni tentativo di conforto e sostegno da parte dei partner maschile di turno appare quantomai irricevibile e improponibile.
La visione dell’esercizio della sessualità e della performance corporea sui set a luci rosse è sempre meccanica e alienata e ogni incastro della messa in scena fatica ad elevarsi oltre il grigiore mesto dell’artificialità, e dell’empatia di facciata che ne deriva: mentre Bella guarda agitata nel vuoto per via della sua «paura del palcoscenico», sentendosi stupida e inadeguata, le viene detto per esempio che in realtà gli autori dei contenuti hanno proprio «bisogno di quell’innocenza, di quella timidezza, di quel nervosismo» (tutto il cast, tranne la protagonista, è composto da professionisti del settore affermati e più o meno noti, e c’è chi tra loro si è dissociato dalla prospettiva avanzata dal film alla luce del prodotto finito).
Selezionato al Festival di Cannes 2021 e presentato, tra i molti festival in cui si è visto, al Sundance’s World Cinema Dramatic Competition, Pleasure, che in Italia è approdato in esclusiva su MUBI, ha un titolo evidentemente paradossale e antifrastico e si interroga, più che sui confini, i margini e le applicazioni del godimento, sulla ruggine e le incrostazioni di una narrazione esclusivamente maschile alla base del porno industriale americano, usando il porno – ma soprattutto i corpi che lo abitano – come veicoli e vettori di una disarticolazione dell’empatia che sacrifica anzitutto il femminile, la sua identità e la sua specificità.
I set pornografici, in particolare, sono mostrati come una prigione coercitiva ed esteticamente anonima – specie in assenza di immagini post-prodotte – in cui la disinvoltura e la naturalezza sono immolate sull’altare della produttività, nei quali la meccanizzazione seriale dei punti di vista e degli obiettivi genera in automatico un profondissimo scollamento da ogni forma di organicità (e di senso dell’organico), di fluidità, di liberazione del desiderio e di umori fisici e psicologici. La limpidezza e potremmo dire anche lo schematismo della tesi proposta sono evidenti, con tutte le asserzioni del caso che smarriscono complessità dialettica nell’articolazione del racconto e nelle pieghe più oscure della narrazione, ma alla base di Pleasure c’è soprattutto un’incontestabile percezione del posticcio – e delle sue ricadute, a tutti i livelli – come matrice di ogni imposizione individuale, sociale e merceologica più o meno velata.
Foto: Plattform Produktion, Film i Väst, Sveriges Television, Lemming Film, Grand Slam Film, Logical Pictures
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