Nostalgia a Cannes 75: la recensione del film di Mario Martone con Pierfrancesco Favino

Il film, presentato in Concorso alla 75esima edizione del Festival, è da oggi nelle sale italiane: la storia è quella di un uomo, Felice Lasco (Pierfrancesco Favino), che torna a Napoli dopo aver vissuto molti anni in Egitto per rivedere l’anziana madre che aveva lasciato all’improvviso quando era ancora un ragazzo, ritrovandosi sprofondato nella sua città natale tra i vicoli di Rione Sanità

Nostalgia
PANORAMICA
Regia (4)
Sceneggiatura (3.5)
Interpretazioni (4.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3.5)

Felice Lasco (Pierfrancesco Favino) torna a Napoli dopo aver vissuto molti anni in Egitto per rivedere l’anziana madre che aveva lasciato all’improvviso quando era ancora un ragazzo. Nella sua città si perde tra le vie del Rione Sanità, nelle parole di una lingua che sente estranea, ma che in realtà è la sua. L’uomo sembra rapito da una strana malìa e irrompono in lui i ricordi di una vita lontana trascorsa con Oreste (Tommaso Ragno), il migliore amico d’infanzia con il quale condivide un segreto. Quando è evidente che Napoli rappresenta per lui una vita ormai perduta e che dovrebbe tornare al più presto da dove è venuto, viene inchiodato dalla forza invincibile della nostalgia. 

«La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede»: si apre con questa frase di Pier Paolo Pasolini Nostalgia, il nuovo film di Mario Martone in Concorso al 75esimo Festival di Cannes: una scarnificazione, o per meglio dire una spoliazione, del romanzo omonimo di Ermanno Rea, che risale all’idea etimologica di “dolore del ritorno” evocata dal titolo per costruire, tutta addosso agli occhi e al corpo di Favino, una meditazione immaginifica sul recupero dolente delle proprie origini, sullo sbigottimento, il senso di dispersione e la malinconia che ne derivano, anche e soprattutto in rapporto alla bellezza travolgente e indomabile di Napoli e ai suoi altrettanto ingestibili strascichi, in grado di scuotere e commuovere, tramortire e lasciare sopraffatti.

È un film che setaccia misteriosamente gli intrighi dei luoghi e delle anime, Nostalgia, tutto ambientato e girato nel Rione Sanità, enclave lontana dal mare che presenta una sintonia ancestrale e quasi mistica tra le Chiese, le pietre e le persone, trovando esclusivamente nei propri contrasti forti il senso intimo e profondo di una magnificenza e un incanto decaduti e perduti. Martone, per sua stessa ammissione, immortala questo microcosmo come fosse una scacchiera borgesiana, ritagliando intorno al suo protagonista un arioso e carezzevole senso di prigionia, una dissertazione visiva a misura di vagheggiamento: una condizione scandita spesso dal sottofondo di note jazz e soprattutto dal deambulare assorto e attonito di Favino, come d’abitudine pienamente in controllo della materia tanto nella recitazione implosa, al servizio dei silenzi del suo personaggio, quanto nei momenti in cui l’emotività latente e le scorie mal riposte del passato si sciolgono in una smorfia ferita di rabbia e tristezza. 

Elegante e labirintico, incredibilmente viscerale pur partendo da premesse quasi esclusivamente ovattate, Nostalgia è un film raro e prezioso per il cinema italiano, nel quale si respirano a pieni polmoni la voglia e l’urgenza di coccolare un sentimento sudista del mondo, di non piegarsi al didascalismo delle emozioni telecomandate, di virare le psicologie in chiave puntualmente sfaccettata e anti-drammaturgica. Laddove il film sconfina nel thriller e nel crime si tratta infatti solo di cenni sulla tavolozza, di striature appena accennate che mantengono la stessa dimensione onirica e sognante dei flashback giovanili in 4:3 sulle note di Lady Greengrass dei Tangerine Dream, momenti che hanno ovviamente una grana e una pasta in Super 8 scollata dal resto. 

Prima di tutto e soprattuto, Nostalgia è però un film materno e abitato da un’articolata percezione della maternità, delle città fisiche come dei legami di sangue. Non solo perché le scene di Felice con la madre, in cui la lava, la pettina e la veste, hanno una pietas familiare delicata e sussurrata come raramente accade al cinema, ma perché è anche un’opera di catacombe interiori da passare al setaccio, di connessioni primordiali e cordoni ombelicali da sciogliere e riannodare filo dopo filo, dettaglio dopo dettaglio. Un processo che l’interpretazione di Favino ha il merito di assumere millimetricamente e robustamente su di sé, aderendo all’impronta del suo personaggio come a una lingua antica e misteriosa, evocandone perfino gli slittamenti nel parlato: dall’italiano con forte accento arabo dell’inizio fino a una più furente riappropriazione dell’idioma della sua giovinezza, emblema dello scivolamento di Felice verso una resa dei conti impervia e nient’affatto pacificata coi fantasmi del suo passato. 

Foto: Picomedia, Mad Entertainment, Medusa 

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