Non aprite quella porta: Leatherface è tornato nel film sequel su Netflix. La recensione

Si tratta del seguito diretto (e canonico) del leggendario capolavoro di Tobe Hooper del 1974 e del nono film totale del franchise horror

Non aprite quella porta
PANORAMICA
Regia (2)
Sceneggiatura (1.5)
Interpretazioni (2)
Fotografia (2)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (1.5)

Quasi 50 anni dopo la follia omicida di Faccia di Cuoio consumatasi nel 1973, gli imprenditori Melody e Dante, la sorella di Melody, Lila e la fidanzata di Dante, Ruth, si recano nella remota città texana di Harlow. Il luogo è stato abbandonato da tempo e il gruppo intende mettere all’asta le proprietà per creare un’area alla moda e fortemente gentrificata. Ma il loro sogno si trasforma in un incubo quando senza volerlo disturbano il serial killer squilibrato che con la sua eredità di sangue continua a tormentare gli abitanti della zona. Tra questi c’è Sally Hardesty, l’unica sopravvissuta al massacro tristemente noto di tanti anni prima, che è determinata a ottenere vendetta.

Non aprite quella porta, diretto da David Blue Garcia su soggetto di Fede Álvarez e Rodo Sayagues (autori della saga di Man in the Dark), progetto assai travagliato e appena approdato su Netflix dopo anni segnati da avvicendamenti e gestazioni tribolate, è il sequel diretto (e canonico) dell’omonimo capolavoro del 1974, nonché il nono lungometraggio assoluto del ciclo di film e della saga horror dedicati a Leatherface.

Rispetto all’intelligenza filologica e al briosa dell’ultimo Scream, in questo caso siamo più dalle parti del safari a buon mercato negli orrori southern resi gloriosi dal film capostipite di Tobe Hooper («Non sono nichilista, sono texano», si dice nel film), con delle spolverate giovanilistiche nella caratterizzazione delle vittime-influencer che non bastano ad aggiornare il mito.

L’idealismo progressista e posticcio di un gruppo di ragazzi che vorrebbe erigere una società ideale lontana dalle storture della contemporaneità (“Ammirate l’allegria del tardo-capitalismo!”) fa il verso alla fine dell’utopia hippy dell’originale ma è un mero specchietto per le allodole, le pretese ortodosse rispetto al franchise appaiono decisamente tirate per i capelli e tolte tutte le incrostazioni, incluse quelle sulle radici violente e polverose dell’America e dei suoi nuclei western originari, rimane solo un discreto spettacolo gore, dalla durata secca e contenuta. Un esito dalla diligente tenuta truculenta ma totalmente alimentare, nel quale il lascito di The Texas Chainsaw Massacre si rintraccia per la maggiore, e quasi esclusivamente, in uno stantio negozio di souvenir e monili a tema collocato in una stazione di servizio. 

Foto: Legendary Pictures, Bad Hombre, Exurbia Films

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