Nicola Nocella: il mio Natale, in poltrona con Louis e Billy Ray

L'attore de Il figlio più piccolo racconta perché Una poltrona per due è il suo film di Natale

Io non sono cattolico. Non lo sono mai stato, non mi hanno nemmeno battezzato. Vengo da una famiglia protestante di quelle intransigenti: nessun compleanno, nessun Carnevale, nessun Halloween, nessuna festa comandata, niente regali. Ovviamente, nessun Natale.
Chiudete gli occhi e pensate a me, in un paesino della Puglia 30 anni fa, in queste condizioni: mi volete già un po’ più bene? Ecco, per questo non lo racconto mai in pubblico.
Natale, perciò, per me era solo un periodo dell’anno in cui potevo stare davanti alla Tv a guardare i film, perché fuori c’era troppo freddo. Li ho visti tutti. Il piccolo Lord era il mio preferito, poi c’erano tutti quelli classicamente natalizi, che conosco a memoria.
A metà anni Novanta arrivò LUI: l’ouverture delle Nozze di Figaro. Philadelphia. Louis e Billy Ray.
Sì, esattamente quel film che da più di 20 anni fa il 10% di share il 24 dicembre su Italia Uno.
Cosa c’entra col Natale? NIENTE. Se non fosse per quella monumentale scena in cui Aykroyd tira fuori un salmone dalla barba, vestito da Babbo Natale, non ce ne accorgeremmo. Non c’è nemmeno, mai, neppure la neve. E a Philadeplhia, a Natale, la neve c’è sempre. Perché figuriamoci se Landis girava quel film nel periodo natalizio. Ed è un capolavoro, proprio per questo. Perché un film fatto da un immenso regista di religione ebraica, quindi uno che come me non festeggia il compleanno di Gesù, che prende la storia di Giobbe dall’antico testamento e la attualizza, un film sull’Insider Trading, sulla meschinità del genere umano, un film che ha innumerevoli riferimenti all’Opera, è un film che è un monumento, insomma. E allora com’è che questo film che col Natale non c’entra un ca**o, per noi italiani è IL film di Natale? Vi ho fatto passare la voglia di guardare Una poltrona per due o no? Spero proprio di no. È un film bellissimo.
Sapete chi avrebbe dovuto fare Billy Ray?
Esatto, John Belushi. John e Dan venivano dal disastro economico che era stato The Blues Brothers e dall’ancor più disastroso al botteghino I vicini di casa (uno più bello dell’altro, che ve lo dico a fare?), ma erano pronti a fare questa commedia sul mondo finanziario. Poi John si innamorò dell’eroina e la carriera di Eddie Murphy esplose. Era il secondo film per lui, dopo 48 ore. Tutto il resto, per Murphy, arrivò dopo. Anche e soprattutto con Landis regista. Così come per Bill Murray. E tutti loro venivano dalla televisione, dal Saturday Night Live. Quello vero. In diretta. Di sabato sera. In America. Non quello registrato, che va in onda di martedì, in Italia. Perché i comici americani sono in realtà tutti grandi attori, preparatissimi e rodati. Vabbè. Dicevamo, Belushi. Muore lui, partono altre carriere. Sono strani, i percorsi, le carriere, le scelte. Io, a Il figlio più piccolo, ci sono arrivato a metà prima settimana. Il protagonista scelto era andato via. Non se la sentiva più di fare quel film. E allora Pupi mi chiamò, mentre ero già tornato in Puglia per le feste di Pasqua. Tornai indietro, arrivai a Cinecittà e cominciai il fi lm al volo. Insomma, tutto quello che è successo dopo, i film, i premi, i festival, i casini, i pianti, i disastri, questa stessa rubrica, non esisterebbero se quel ragazzo, per cui quel film era proprio stato scritto, non se ne fosse andato dal set a metà prima settimana.
E io, quel ragazzo non mi ricordo nemmeno come si chiami.

Brano ascoltato in loop mentre scrivevo: Umbrella – Rihanna

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