Esordio in lingua inglese per il cineasta thailandese Apichatpong Weerasethakul, tra i più celebri autori del Sud-est asiatico e vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2010 per Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Memoria è forse il massimo punto di non ritorno dello stile estremo, contemplativo e rarefatto dell’autore, che stavolta abbandona quasi del tutto ogni appiglio narrativo in favore di un’orchestrazione ininterrotta di suoni e sensazioni, il cui potere evocativo sembra pre-esistere, quasi come confinato in un regno primordiale e ancestrale di alberi e ruscelli, all’esercizio stesso e qui quantomai sterile della parola.
Tilda Swinton, anche produttrice esecutiva dell’operazione, si cala totalmente nel meccanismo radicale e intransigente sul quale si regge la regia, muovendosi dentro il film in qualità di sound designer di rumori sordi e senza nome (in particolare un boato, particolarmente risonante, misterioso e destabilizzante, in grado di far rizzare i peli sulla nuca a chiunque lo ascolti, spettatori in primis). Il risultato, nelle sue tante inquadrature simili a tableaux vivants e a quadri fissi dal montaggio interno, coniuga uno stupore da cinema delle origini e un futurismo silente e assorto quasi post-cinematografico, in cui il racconto per immagini pare essere confluito direttamente in un regime da installazione video-artistica e museale.
Il titolo, Memoria, non è solo perfettamente raccordato al taglio malinconico di tutta l’opera, ma è anche il salvacondotto ideale per guidare lo spettatore alla ricerca del senso (e di un senso), suggerendogli l’esigenza di lavorare su ciò che resta di immagini e suoni in quanto tracce archeologiche residuali di un’umanità in via d’estinzione, pronta a essere soppiantata da elementi alieni (in improbabile quanto concretissima e tangibile CGI) già pronti a planare.
Foto: Kick the Machine, Burning, Anna Sanders Films, Match Factory Productions, Piano, Xstream Pictures, iQiyi
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