Madres paralelas: la recensione del film di Pedro Almodóvar

Il 23esimo lungometraggio del regista spagnolo ha per protagoniste due donne, Janis (Penélope Cruz) e Ana (Milena Smit), che condividono la stanza di ospedale nella quale stanno per partorire e sono entrambe single e al termine di una gravidanza inattesa

Madres paralelas
PANORAMICA
Regia (3.5)
Sceneggiatura (2.5)
Interpretazioni (3.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (3)

Due donne condividono la stanza di ospedale nella quale stanno per partorire. Sono entrambe single e al termine di una gravidanza inattesa. Janis (Penélope Cruz), di mezza età, non ha rimpianti e nelle ore che precedono il parto esulta di gioia e cerca di convincere il padre, l’archeologo Arturo (Israel Elejalde), a riconoscere il figlio. 

Ana (Milena Smit) è invece un’adolescente spaventata, contrita e traumatizzata. Janis tenta di rincuorarla mentre passeggiano tra le corsie dell’ospedale come delle sonnambule. Le poche parole che scambiano in queste ore creeranno un vincolo molto forte tra le due e il fato, nel fare il suo corso, complicherà in maniera clamorosa le vite di entrambe.

A due anni di distanza da Dolor y gloria (2019), film dal sapore definitivo che si elevava a sintesi spudorata e straziante di un’intera carriera, Pedro Almodóvar ha realizzato un film sulla carta meno direttamente autobiografico ma altrettanto privato e sentito, che si fa largo con dolcezza e sobrietà nella Storia della Spagna e nelle sue pieghe più dolorose dietro l’apparente cornice di un dramma femminile a due voci, per certi versi molto simile a tanti altri suoi lavori. 

La sceneggiatura tiene infatti insieme le sorti di Janis e Ana e la ferita aperta, nascosta come polvere sotto il tappeto dalle istituzioni nazionali, delle fosse comuni di cui si è macchiata la Falange spagnola, il movimento politico di ispirazione fascista insediatosi nel paese negli anni ’30: due pilastri per fortuna non solo tematici che, da soli, fanno l’ossatura di tutta l’impalcatura narrativa, scorrendo non meno paralleli delle madri del titolo, sfocandosi e sfumandosi a vicenda istante dopo istante e snodo dopo snodo. 

Quella di Madres paralelas, come suggerisce il titolo, è dal canto suo una maternità doppia, che viaggia su due binari distaccati solo al principio e destinati anch’essi fatalmente a incrociarsi, confondersi, entrare in rotta di collisione con esiti estremamente struggenti e melodrammatici. Come di consueto il cineasta spagnolo gioca con la ronda sentimentale di sole donne («We Should All Be Feminists», recita una maglietta di Janis, che deve suo nome per via di Janis Joplin, citando il volume fondamentale di Chimamanda Ngozi Adichie) e lo fa a carte scoperte e a cuore aperto, disseminando la propria sensibilità incandescente nelle pieghe di un racconto intimo e misurato. 

Il 23esimo lungometraggio del cineasta iberico, scritto durante i primi mesi del lockdown e girato a inizio anno, è dunque un film tanto sul passato quanto sul presente di un paese ferito, ma anche un omaggio evidente a tutte le madri che hanno abitato da sempre la vita di e poi il cinema di Almodóvar. Come tale è una riflessione sulla memoria più stratificata e sotterranea delle apparenze di scrittura e messa in scena, sono in apparenza semplici (e talvolta semplificate, quando non addirittura semplicistiche) e disadorne. 

Una parabola sulla necessità di coltivarla, la memoria, come forma di resistenza contro ogni aberrazione grottesca e sciatta, come alito di vita e come solo, esclusivo lasciapassare per far sì che l’eredità degli antenati abiti nuove esistenze e si riverberi nei vagiti dei neonati, che lo sguardo almodovariano non a caso è attentissimo a inquadrare sia dal vero quanto attraverso il filtro, alienante ma non meno poetico, dei device digitali.

Potrebbe apparire a qualcuno un film più freddo del solito, Madres paralelas, eppure pur rimanendo ben distante dalle vette della carriera del regista c’è tutta la matrice della sua ispirazione e la volontà di catturare ricordi e sensazioni infilzandoli con la stessa passione con cui il personaggio della Cruz, una fotografa, congela le sue istantanee pubblicitarie di marchi di moda e con la quale la fotografia di José Luis Alcaine immortala quadri, dettagli, oggetti di décor e scorci del quartiere multietnico e centrale di Lavapiès, a Madrid, tramutandoli in nature morte crepitanti proprio come le protagoniste, di una sensualità che abbraccia puntualmente la solidarietà, l’accoglienza e soprattutto l’autodeterminazione sottratta a ogni pastoia morale e sociale. 

Foto: © El Deseo D.A. S.L.U.

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