L’insaziabile: va’ dove ti porta lo stomaco

Michele Petrucci ci racconta il suo nuovo graphic novel ambientato durante la rivoluzione francese in cui la vita del protagonista è segnata da un appetito incolmabile e lo trasporta al centro di una storia a cavallo tra le visioni di Lynch e il Barry Lyndon di Kubrick

Amore a prima vista: «Quando ho scoperto questa storia, ho subito pensato che fosse fantastica. Perfetta. Mi ha colpito profondamente. Forse è stato il fascino che provo nei confronti degli ultimi e degli sconfitti». Con L’insaziabile, edito da Coconino Press, Michele Petrucci si avventura nel sottobosco dell’umanità, tra disperati, malinconici e ossessionati. Il suo disegno è sottile e affilato, pieno di spigoli e di punte, e non per questo meno armonioso: c’è una fluidità nella composizione delle vignette e delle pagine che fa da collante tra una situazione e l’altra, e che traghetta il lettore dall’inizio alla fine.

Il protagonista della storia si chiama Tarrare: è divorato dalla fame, è insaziabile, e nel cibo trova la sua unica consolazione. «La cosa che mi ha convinto di più, insieme alla vita di questo personaggio, è stata l’epoca in cui è ambientato il racconto», dice Petrucci. «Siamo a cavallo della Rivoluzione Francese. In questo modo, ho potuto approfondire aspetti particolari, e suggerire alcuni parallelismi».

Per esempio la fame.
«È una metafora. E non solo del periodo storico. All’epoca c’era la fame vera, la fame di mangiare, ma anche la fame di libertà e di indipendenza. Questo personaggio incarna la condizione umana. Perché tutti gli uomini sono affamati nella loro quotidianità».

Tarrare, però, è un contadino. Viene dalla classe più povera. E non ha molta speranza.
«È una figura tragica, è vero, ma a suo modo è completa. Ho provato ad andare oltre la sua condizione, e a raccontare anche la sua esistenza, i suoi dubbi, le sue paure, il mondo in cui si muove e come ragiona. Ma la vera ricerca, confesso, è stata a livello visivo».

Da dove sei partito?
«Quando ho letto questa storia per la prima volta, mi sono venuti in menti diversi film. E quadri. Una cosa che, a suo tempo, fece anche Stanley Kubrick. Ho fatto una ricerca a più livelli per disegnare la città e la campagna francese. E ho visto e rivisto molti film».

A un certo punto, nel racconto, c’è un’alternanza tra i colori e il bianco e nero. Perché?
«Provo sempre a inserire il subconscio nelle mie storie. In questo caso, ho deciso di giocare con i colori. Il bianco e nero, qui, rappresentano il sogno. Ma alla fine i due piani, quello onirico e quello della realtà, si intersecano, si intrecciano e finiscono per sovrapporsi».

Dove trovi le tue storie?
«Mi piace citare David Lynch, che dice che le idee sono un po’ come i pesci. E io mi sento così, come un cercatore o un pescatore. Mi piace mettermi sulle tracce delle cose. E sono abbastanza convinto del fatto che le storie vere siano, a loro modo, più interessanti di quelle inventate».

Non hai paura di ammettere di rifarti, nei tuoi lavori, al cinema.
«Assolutamente no. Ne L’insaziabile c’è una scena che è letteralmente ripresa da Barry Lyndon di Kubrick».

Eppure, di recente, si sente come il bisogno di tutelare i fumetti. Come nome, come contenuto e come linguaggio.
«Io li chiamo romanzi a fumetti. C’è una differenza di struttura e di linguaggio, non dei contenuti, nel modo in cui una cosa viene costruita e messa insieme. Ma un’etichetta è solo un’etichetta. Alla fine, a contare, è la storia».

E cos’è più importante? Il punto di vista di chi narra, o il pubblico che, poi, legge?
«Un autore, in teoria, deve pensare al racconto. E un racconto si rivolge sempre a qualcun altro. Non si scrive mai per sé stessi. Ma è importante non tradirsi, essere fedeli a quello che si pensa. Per qualcuno, può essere anche un modo per sfogarsi».

Si riduce tutto alla fame, ancora una volta.
«Ci sono tanti tipi di fame. La fame può essere un obiettivo o un ostacolo e può rischiare di distogliere le persone da quello che vogliono. Io credo molto nelle storie. Una buona storia è una cosa molto potente: a volte, ce lo dimentichiamo. Io non cerco il successo fine a se stesso; io voglio solo che la mia storia trovi il suo spazio».

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