La nuova avventura Disney e Pixar Lightyear – La vera storia di Buzz racconta le origini di Buzz Lightyear, l’eroe che ha ispirato il giocattolo di Toy Story, e segue il leggendario Space Ranger dopo che costui è rimasto bloccato su un pianeta ostile a 4,2 milioni di anni luce dalla Terra insieme al suo comandante e al loro equipaggio. Mentre Buzz cerca di trovare un modo per tornare a casa attraverso il tempo e lo spazio (viaggiando «Verso l’infinito e oltre!», avrebbe detto la sua versione in miniatura), si uniscono a lui un gruppo di ambiziose reclute e il suo irresistibile gatto robot di compagnia, Sox. L’arrivo di Zurg, una presenza imponente con un esercito di robot spietati e un fine misterioso, complica le cose e mette a rischio la missione.
Lightyear – La vera storia di Buzz, diretto da Angus MacLane (co-regista di Alla Ricerca di Dory e storico animatore Pixar, secondo molti massimo esperto di Buzz nella factory di Emeryville), prodotto da Galyn Susman (Toy Story: Tutto un altro mondo) e con colonna sonora firmata da Michael Giacchino (The Batman, Up), parte da un’idea tanto curiosa quanto azzeccata: mostrare al pubblico il film che generò il giocattolo di Buzz, che in Toy Story della Pixar si contrapponeva dapprima conflittualmente e poi fraternamente al cowboy Woody, in un indimenticabile buddy movie d’animazione in grado di abbracciare idealmente le due anime archetipiche dell’America e di rubare il cuore a più generazioni.
«Nel 1995 un bambino di nome Andy ricevette un giocattolo che rappresentava l’eroe del suo film preferito. Questo è quel film»: si apre con questa eloquente didascalia Lightyear, origin story che trasforma lo Space Ranger ammirato nel film di John Lasseter del 1995 in un eroe tutto d’un pezzo ma anche dilaniato da dubbi e sensi di colpa, che occupano tutta la prima porzione del racconto e si raccordano alla riflessione a caratteri cubitali sul tempo che passa, sulle occasioni mancate, sul tempo della vita che scorre – fatalmente e qui addirittura concretamente – molto più veloce e inesorabile di quello di sogni e ossessioni, perfino.
Del mondo dei giocattoli, a conti fatti, non si trova davvero traccia, e anche se lo stile sentimentale è puramente Pixar, con accenti particolarmente inclusivi, si guarda più all’orizzonte dei blockbuster live action di oggi, con un’attenzione alle ricadute filosofiche temporali attraverso le dimensioni che ricorda Interstellar ma che per fortuna non ha quell’aggrovigliata ma impalpabile gravosità del film di Christopher Nolan.
Nel Buzz di Lightyear, doppiato in italiano da Alberto Malanchino, non c’è infatti più molto dell’astronauta irresistibilmente borioso e fanfarone di Toy Story, della sua vena sottilmente stolida e talvolta azzardata, avventata e istrionica (senza mai sfociare in un approccio totalmente pasticcione, tuttavia), di quel pragmatismo pieno di sé ma via via sempre più aperto all’accettazione bonaria dei propri limiti. In questo caso la Pixar si cimenta con quella che è a tutti gli effetti una space opera d’animazione, un viaggio interspaziale condiviso nell’iconografia e negli affetti di un eroe amatissimo, tra sintesi e tripudio di un immaginario sci-fi molto preciso, che qui risplende soprattutto in controluce.
In particolare, va detto, nel paradosso di scoprire in sede postuma il passato e la gesta di un personaggio del quale credevamo di sapere tutto e che scopriamo estremamente fragile e umano, prossimo quasi a una dimensione esistenziale da reietto, che il proprio “carburante” lo trova soprattutto in un’integrità morale e in un altruismo costretto a fare a pugni con slanci superomistici e dai piedi d’argilla. A preservare l’incanto ludico e la tenerezza giocosa, nerd e smielata dell’operazione ci pensa invece Sox (la voce italiana è di Ludovico Tersigni), gatto robot regalato a Buzz dalla sua migliore amica e cadetta spaziale Alisha Hawthorne (Esther Elisha), fulcro emotivo ma anche dolcemente razionale delle sorti di Buzz e di tutta la sua parabola, proiettata nuovamente verso l’infinito e oltre – certamente – ma attenta anche a soffermarsi sulla finitezza (e la tragica, inviolabile indefinitezza) delle umane possibilità.
Foto: Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures
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