Alana Kane (Alana Haim) e Gary Valentine (Cooper Hoffman), i due protagonisti di Licorice Pizza, sono due forze vive e attive, in costante e irrequieto movimento. Lei è una venticinquenne ebrea dal temperamento aspro e selvaggio, che lavora come assistente fotografa e ha alle spalle una famiglia ingombrante, segnata in primis dal rapporto conflittuale con le sorelle. Lui, quindicenne, è un enfant prodige della recitazione, dall’espressione simpatica e bonaria, ma l’aspetto goffo, candido e corpulento celano un’iperattività non meno indomabile, specie quando c’è da mettere mano a delle iniziative imprenditoriali.
Il nuovo film del cineasta californiano Paul Thomas Anderson, nato a Studio City nel 1970 e di ritorno per l’ennesima volta nella San Fernando Valley e nella ricostruzione millimetrica delle atmosfere del decennio in cui è cresciuto, è tutto costruito intorno a loro, Alana e Gary, questi due ragazzi singolari e peculiari che sono i vettori esplosivi di un meccanismo di attrazione e repulsione: due poli elettrificati che si avvicinano, si seducono e si respingono in continuazione, interessanti non tanto per le loro implicazioni psicologiche volatili, schizofreniche e perfino psichedeliche (siamo pur sempre nella Los Angeles del 1973, dopotutto) quanto per il loro essere dirette emanazioni di luoghi nei quali tutto – dalle luci, agli ambienti, alle insegne, alle strade – pare essere stato filtrato attraverso la lingua purissima del cinema, in grado di articolare un pensiero e una sintassi tutti suoi, oltre che delle pure emanazioni di celluloide.
Licorice Pizza è in tal senso una proiezione a occhi aperti, proprio come C’era una volta a… Hollywood, e non ha nessuna ricaduta narrativa tradizionale completa e compiuta. Analogamente all’ultimo film di Quentin Tarantino non rinuncia alle ricadute taglienti e opache della nostalgia scomodata, che si traducono in una storia d’amore sui generis, ora tiepida ora forsennata, in cui ci si muove di corsa in corsa, di lampo in lampo e di frammento in frammento, in un costante corpo a corpo con lo spettatore che non ha altra ragion d’esistere al di fuori di un gioco di seduzioni e depistaggi con i fantasmi e le costellazioni hollywoodiane: personaggi realmente esistiti come William Holden, Lucille Ball, Sam Peckinpah, Barbra Streisand, Julie Andrews e Grace Kelly non a caso sono evocati, quando non semplicemente citati, e al contempo distorti, per non parlare del cognome della protagonista, Kane, che richiama addirittura Quarto potere e ha un peso nient’affatto indifferente nella storia del cinema.
Licorice Pizza s’intreccia poi a doppia e tripla mandata con tutti i film di Anderson, non solo per il setting, e in particolare con gli ultimi: come Vizio di forma è a suo modo uno stoner movie, girato e pensato senza alcun apparente baricentro, accogliendo dentro di sé con sulfureo disincanto suggestioni e vagheggiamenti, e come The Master e Il filo nascosto narra di un feroce e asimmetrico rapporto di forza, costruito come un braccio di ferro e camuffato da storia d’amore per forza di cose malsane e obliqua. Ha anche, in virtù di tale, ipnotica intimità, una dimensione marcatissima da film familiare, un’energia e un combustibile da puro passion project, da teen movie girato con una libertà e la sregolatezza a cavallo tra la New Hollywood e la Nouvelle Vague.
La scelta dei due interpreti principali segue anch’essa questo schema leggiadro, privato e impressionistico, anche se la nota muscolarità della direzione d’attori di un gigante del cinema contemporaneo come Anderson li fa apparire sul grande schermo alla stregua di due veterani: si tratta di Alana Haim, chitarrista e tastierista del gruppo delle HAIM, delle quali PTA ha diretto innumerevoli videoclip, e Cooper Hoffman, figlio di Philip Seymour Hoffman (uno degli attori feticcio più cruciali del cineasta) e il cui personaggio sembra la versione ringiovanita del Dean Trumbell interpretato dal padre in Ubriaco d’amore, che era un uomo dai business coloriti, titolare di una hot line e proprietario di un negozio di materassi, lo stesso settore nel quale Cooper cerca di affermarsi accanto a quello delle sale da flipper.
Licorice Pizza, in fondo, somiglia molto esso stesso ai materassi ad acqua che al suo interno si prendono sempre più la scena senza una particolare ragione: è un film puntualmente agrodolce sul quale adagiarsi in maniera ludica e fluttuante, trovandovi una comodità e un tepore che tuttavia non sono mai univoci, statici e immediatamente leggibili e statici e portano lo sguardo a ondeggiare costantemente. Da sequenze di pura regia, che si prendono tutto il loro tempo per scrutare volti e gesti sospesi come in un acquario, a momenti in cui è la ricchissima colonna sonora a galleggiare dentro e fuori dalle immagini (il titolo è un omaggio a un noto negozio di dischi californiano, che a sua volta ricorreva a un’espressione usata per riferirsi ai vinili); passando ovviamente per scene che sono delle macro-sinfonie quasi interamente votate al muto e un po’ spaventose, come quella eccezionale della discesa in folle del camion rimasto senza benzina (il 1973, naturalmente, fu anche l’anno della ben nota crisi petrolifera).
Quello di Paul Thomas Anderson è un film che brucia a fuoco lento, che a tratti sembra esistere a prescindere dalla necessità che qualcuno si soffermi a guardarlo («I miei occhi hanno solo bisogno di un posto dove andare», dice casualmente ad Alana un guardone che fa capolino nel finale e al quale lei si rivolge con la consueta velenosità), popolato da molte sequenze spassionatamente gratuite in cui a guadagnare la ribalta sono personaggi volutamente piccoli piccoli (non necessariamente di statura, ma quasi sempre nella sostanza), buffi e sgranati.
Ed è anche, in definitiva, una parabola sulla malinconia di certo, giovane divismo meno ottimista e solare delle apparenze (il disprezzo di Alana, che di lavoro fa foto ai bambini, verso infanzia e adolescenza è in tal senso paradigmatico), nella quale il rischio dell’oblio reciproco è sempre dietro l’angolo e manco a dirlo solo il cinema, nella sua natura eternamente giovane, adolescente e transitoria, può fungere da panacea di tutti i mali, orizzonte ultimo e più malinconico cui tendere e àncora di salvezza dell’immaginario, come l’istantanea scolorita di un primo amore al quale fare sempre ritorno.
Foto: BRON Studios, Ghoulardi Film Company
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