“La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!” questo è l’incontrovertibile giudizio espresso dal ragionier Ugo Fantozzi nel lontano 1976, ormai entrato nella storia della critica cinematografica e nella coscienza popolare collettiva. Un parere forte e difficile da contestare, visto che La corazzata Kotiomkin, pure a fronte delle interminabili “diciotto bobine” che lo compongono, è un film inesistente, immaginario, come immaginario è pure il suo regista, Serghei M. Einstein. Tutte creazioni di Villaggio, Benvenuti, De Bernardi e Salce (gli sceneggiatori de Il secondo tragico Fantozzi) per irridere un certo ambiente e l’atteggiamento della critica da cineforum (con annesso dibattito) della loro epoca.
Discorso del tutto diverso, invece, per La corazzata Potëmkin, di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, che non solo esiste, ma che è anche un capolavoro del cinema, ancora straordinariamente attuale in virtù del suo linguaggio prettamente visivo e pienamente godibile (anche grazie a una durata digeribile da chiunque: poco meno di ottanta minuti, un’ora e venti). Nato come un ambizioso film di propaganda per la celebrazione del ventennale della Prima rivoluzione russa, concepito come un maestoso e articolato affresco storico ma trasformato da Ėjzenštejn in un racconto molto più coeso e focalizzato su di un solo, simbolico evento, La corazzata Potëmkin racconta le vicende di un gruppo di marinai che, rifiutandosi di mangiare la carne avariata del rancio, daranno il via a una serie di eventi che porteranno alla rivolta popolare contro lo spietato governo degli Zar.
Il film si suddivide in cinque atti, nel pieno rispetto della tragedia classica, organizzati per costruire un arco di crescita che prende le sue mosse dal personale (il singolo marinaio) per arrivare all’universale (la lotta del popolo). Se le sue singole riprese si segnalano per la perfezione compositiva e per l’acume con cui Ėjzenštejn aggira i numerosi problemi produttivi, trovando soluzioni atte a suggerire e evocare molto di più di quanto appaia davvero sullo schermo (in questo senso è mirabile il modo in cui venga “creato” un vasto esercito di cosacchi con l’ausilio di solamente pochi attori in costume), quello che colpisce davvero del film è il suo “montaggio delle attrazioni”, che secondo Ėjzenštejn rappresentava un libero concatenarsi di azioni arbitrariamente scelte, indipendenti, ma con un preciso orientamento e un determinato effetto tematico finale. Tradotto per chi (come il sottoscritto) non è un genio del cinema moderno, significa che il regista organizzava il montaggio non basandosi esclusivamente su una logica progressiva e didascalica del momento raccontato, quanto per giustapposizione di immagini e sequenze affini, sovvertendo anche la linearità del tempo, con lo scopo di creare un preciso effetto emotivo al servizio del tema e del significato del film.
Nel montaggio delle attrazioni tutto era, apparentemente, disordinato e scomposto e spettava allo spettatore fare uno sforzo attivo per ricomporre il senso di quello che stava vedendo (sforzo che avveniva più a livello inconscio, come riflesso condizionato e allenato da anni di fruizione di storie, che conscio). Aggiungiamo poi che a questa soluzione di montaggio, Ėjzenštejn sposava la sua poetica del “cinema- pugno” (una delle tante correnti del cinema d’avanguardia russo) che si poneva l’obiettivo di sconvolgere lo spettatore colpendolo con immagini potenti, primi piani strettissimi e improvvisi, espressioni esagerate, azioni serrate, dettagli violentissimi, per suscitare forti emozioni da veicolare nel tema narrativo. A leggerlo sembra tutto molto complicato, ma a guardarlo oggi appare tutto invece chiarissimo oltre che straordinariamente moderno e attuale. Perché la lezione di Ėjzenštejn è entrata in maniera così profonda e diffusa nella grammatica del cinema che possiamo ritrovare le sue soluzioni in larga parte del cinema mondiale, anche in quello più commerciale.
Ma, in conclusione, ha senso oggi vedere La corazzata Potëmkin se non si sta studiando cinema? E la risposta è sì, senza alcun dubbio. Perché tutta l’impalcatura teorica e la messa in scena pratica del capolavoro di Ėjzenštejn hanno il solo fine di ottenere dal mezzo cinematografico il miglior risultato narrativo possibile, cioè realizzare un film potente e molto coinvolgente sul piano emozionale. Quindi, magari state alla larga dalla ‘Corazzata Kotiomkin’, ma recuperate La corazzata Potëmkin.
3 Motivi per definirlo un classico
– Per il suo straordinario montaggio
– Per la scena dell’assalto dei cosacchi sulla scalinata di Odessa
– Per l’occhio della madre, ovviamente
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© Goskino, Mosfilm
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