È andato tutto bene: la recensione del film di François Ozon con Sophie Marceau

Il nuovo film del sempre più prolifico autore francese, approdato nelle sale italiane con Academy Two, è un commovente dramma familiare

È andato tutto bene Ozon
PANORAMICA
Regia (3.5)
Sceneggiatura (3.5)
Interpretazioni (4.5)
Fotografia (3)
Montaggio (3)
Colonna sonora (3)

François Ozon è forse il più eclettico tra i registi francesi contemporanei riconosciuti in egual misura tanto dalla critica quanto dal pubblico della cinefilia di qualità. Negli ultimi anni la galleria dei suoi personaggi si è fatta sempre più articolata ed eterogenea, dalla giovane sex worker interpretata da Marine Vacht in Giovane e bella alla vedova di guerra Anna di Paula Beer in Frantz, passando per le pedine di un gioco erotico alla Brian De Palma in Doppio amore e la parabola sui predi pedofili di Grazie a Dio. 

Il suo nuovo film dopo Estate ’85, sorta di variazione macabra sul tema di Chiamami col tuo nome che avrebbe dovuto figurare sulla Croisette nell’edizione 2020 mai tenutasi, è È andato tutto bene ed è passato in Concorso a Cannes lo scorso luglio, a riprova di un percorso all’insegna della prolificità più estrema oltre che della variazione pressoché costante di temi e di toni. Alla base del lungometraggio c’è il romanzo omonimo di Emmanuèle Bernheim che racconta la storia autobiografica di un padre 85enne che, dopo un ictus, chiede alla figlia di aiutarlo a morire portandolo in una clinica in Svizzera (la scrittrice aveva partecipato alle sceneggiature di svariati film di Ozon, da Sotto la sabbia a Swimming Pool, ed è sua amica e collaboratrice storica).

Ozon lo adatta mettendo momentaneamente da parte le istanze melodrammatiche a lui care, e riducendo al minimo pulsioni e tensioni erotiche. In tale slittamento rispetto al suo stesso canone personale c’è già la misura di un artigianato di ottima fattura, che non si crogiola nella costanza di certe ossessioni come unico diktat per ribadire stancamente un’autorialità da apporre come uno stantio – oltre che univoco – bollino di qualità.

Non mancano, tuttavia, i rimandi alla filmografia ozoniana del passato. Le atmosfere di partenza possono ricordare ad esempio quello che è forse il suo film migliore, il dramma sulla malattia Il tempo che resta, mentre un punto di contatto con Estate ’85 è la dimensione del vagheggiamento e del ricordo come arma a doppio taglio: il quel caso era la nostalgia per un amore adolescenziale precipitato in una cupa spirale di violenza, alla soglia della “notte delle streghe”, mentre qui a dominare il copione e la relativa messa in scena sono più nitidamente i temi della morte, dei legami familiari e del fine vita. 

La protagonista ha lo stesso nome dell’autrice del romanzo, Emmanuèle, ed è interpretata da Sophie Marceau, l’ex diva adolescente de Il tempo delle mele, alle prese con una delle prove più intense e misurate della sua carriera. Il padre André è invece portato in scena un volto storico del cinema transalpino, André Dussollier: l’attore cattura con ammirevole intensità le sfumature dolorose di un anziano e prima ancora di un padre, non esente da derive irresponsabili quando non addirittura ciniche e macchiettistiche. E lo fa, sebbene reciti con una vistosa protesi facciale, senza scadere nel patetismo o nella caricatura.

A colpire sono però, soprattutto, le psicologie complementari delle due figlie, chiamate ad accettare uno snodo di passaggio fondamentale, tanto nelle loro vite quanto in quella della figura paterna, a partire da due caratteri assai diversi: accogliente e comprensivo l’uno, quando non addirittura accondiscende e rassegnato, più irrequieto e spigoloso l’altro, cui presta corpo e voce la brava Géraldine Pailhas. Di tanto in tanto si staglia l’ombra di qualche bozzettismo, ma la scrittura e la regia sono sempre sobrie quanto basta per affrontare un argomento così delicato e per commuovere senza vergognarsi della propria universalità sentimentale, portata avanti con dolce tenacia e una buona, giusta dose di compassione e tenerezza. 

Tutti i personaggi, in ogni caso, sono chiamati a giocare coi pieni e coi vuoti della vita, la sofferenza e i rimpianti, le scorie di un passato accidentato e dolcemente burrascoso, colto un attimo prima che tutto scolori e ogni cosa ceda il posto definitivamente alla coperta sempre troppo corta dei ricordi. Non tanto un film sull’eutanasia, dunque, quanto piuttosto una riflessione ad ampio raggio sul “tempo che resta” (appunto) e su quello che ci siamo fatalmente lasciati alle spalle, tra carezze dovute e crudeltà involontarie, buffetti affettuosi e sorrisi a denti stretti. 

A impreziosire il cast sul fronte delle leggende della storia del cinema, infine, anche Charlotte Rampling nel ruolo della madre, durissimo e tagliente pur con pochissime scene e ancor meno battute al suo attivo, e Hanna Schygulla, musa di Fassbinder, la cui apparizione finale, scandita dalle note di Brahms, suggella il progetto e rimanda già alla prossima fatica di Ozon, il rifacimento del capolavoro del regista tedesco Le lacrime amare di Petra von Kant. 

Foto: Academy Two

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