Ci sono documentari sulla carta “su commissione” che in realtà, alla prova dei fatti, somigliano più a prese di posizione personali, a dichiarazioni d’intenti, e inevitabilmente politiche, da parte di chi li concepisce e li assembla. È il caso sicuramente anche di The Velvet Underground, il film che Todd Haynes ha portato Fuori Concorso a Cannes 2021 e nel quale non si fa fatica a rintrecciare il punto di vista ideologico del cineasta rispetto al momento storico che quel gruppo ha rappresentato, segnando un prima e un dopo.
Specie nella prima parte, non a caso, il doc di Haynes somiglia più a uno spaccato socio-culturale della New York degli anni ’60, nella quale la breccia (o addirittura il pretesto) per spostare il focus sulla band composta da Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Angus MacLise prima e Maureen “Moe” Tucker è la sottocultura gay di quel decennio, movimento al quale Haynes, classe 1961, si sarebbe inscritto col suo cinema solo a partire da tre decenni dopo.
Nell’ottica del taglio dell’operazione i Velvet Underground non sono solo un prodotto collocato nel tempo e nello spazio, ma una mitologia ad ampio spettro che ha contribuito a riscattare un gruppo di persone dall’anonimato o addirittura dallo scherno con la lente salvifica ed esplosiva dell’avaguardia. Un prisma, quest’ultimo, attraverso il quale hanno fatto scuola, svolgendo un ruolo decisivo nel codificare la ritualità del “rock alternativo” come lo conosciamo oggi.
Non c’è nulla di scorretto in tutto ciò, ed è anzi tutto filologicamente inappuntabile. È il motivo per cui con The Velvet Underground ci si ritrova davanti agli occhi un flusso audiovisivo ininterrotto non solo limpido negli intenti ma anche appassionante, a un livello speculativo e concettuale quanto da un punto di vista estetico. Haynes, e non potrebbe essere altrimenti, dà l’idea di crederci moltissimo e vi riversa tutta la sua passione informativa: non si limita a mettere ordine nel vissuto e nello stile di una stagione, ma crea intorno alle sonorità dei Velvet un’orchestrazione visiva che rivaleggia costantemente con la loro anima malinconia e sulfurea. Ricreando, e a tratti replicando con zelo millimetrico, il cinema sperimentale del tempo e le sue connessioni profonde con la street art.
Se smodato è l’uso del materiale d’archivio, lo è poi anche quello degli split screen. In essi i volti – fissi e immobili, di per sé espressione di qualcosa, a cominciare ovviamente da quello del totem Lou Reed – sono spesso usati come isole di senso a sé stanti, giustapposte ad altri materiali dinamici. La sensazione è così un po’ quella di trovarsi al cospetto di un finto film di Andy Warhol, direttamente evocato in più di un’occasione (suoi lavori cinematografici compresi, tra cui Empire) e che insieme alla modella, attrice e cantante Nico fu parte integrante e fondamentale dell’aura d’irripetibilità che circondò i Velvet Underground.
Dove il documentario pecca un po’ è invece nell’accumulo talvolta eccessivamente prolisso e ridondante di interviste celebrative, che creano un più convenzionale effetto da “tesi di laurea” che si poteva benissimo smussare (tra le talking heads c’è perfino il regista John Waters, interpellato però per un brevissimo intervento, a mo’ di nota a piè di pagina e nulla più). Magari si poteva cercare maggiormente la frattura inquieta e la sgrammaticatura angosciata, aggiungere qualche live o registrazione inedita in più e approfondire ulteriormente la mente irrequieta e generosa di un rivoluzionario come John Cale, a cominciare dai ben noti dissidi col non meno geniale, ma sicuramente più divulgativo, Lou Reed. Dopotutto fu lui stesso a descrivere nel modo migliore l’ethos della band, con parole semplicissime e sibilline: «Come essere eleganti e come essere brutali».
Foto: PolyGram Entertainment; Verve Label Group; Killer Films; Motto Pictures
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