Rahim (Amir Jadidi) si trova in prigione a causa di un debito che non è riuscito a pagare. Nell’arco di un congedo di due giorni, cerca di convincere il creditore a ritirare la denuncia e, contemporaneamente, scopre che la sua ragazza ha trovato una borsa con dentro delle monete d’oro, pur arrivando alla conclusione che non vuole sanare il suo debito per vie illecite. Quando la sua volontà trapela finisce per diventare famoso, e la gente farà una colletta per aiutarlo.
Con Un eroe, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2021 ex aequo con Scompartimento n. 6 di Juho Kuosmanen, il maestro iraniano Asghar Farhadi è tornato in patria dopo la parentesi a vuoto di Tutti lo sanno, sortita più commerciale (nelle intenzioni) in terra spagnola. La storia e le atmosfere di questo nuovo lungometraggio del regista due volte premio Oscar rimandano immediatamente all’atmosfera dei suoi film più celebrati, Una separazione e Il cliente, ma come sempre in Farhadi a fare tutta la differenza del mondo tra il suo cinema e quello di tutti gli altri è in primis la scrittura a orologeria, al servizio di sceneggiature che sono meccanismi perfetti, oliati con precisione chirurgica nel tratteggio psicologico e imperniati su una drammaturgia encomiabile e senza sbavature.
L’altra cosa straordinaria dei film di Farhadi, che si ritrova ovviamente anche in Un eroe, è che ogni istanza è sempre sviluppata intorno a un singolo evento che si carica di implicazioni esemplari e paradigmatiche, svelati con un’inesorabilità nella quale s’intravede sempre la mano del fato. Il Medio Oriente che Farhadi ci mostra abitualmente, puntando la lente sul suo paese, l’Iran, è un coacervo di contrasti dialettici e conflitti morali e sociali, nel quale ogni assunto può essere prontamente ribaltato, in un battito d’ali di farfalla come al culmine di un lento sbrogliarsi della matassa.
Un eroe va a inscriversi in questa poetica aggiungendovi un nuovo, decisivo tassello, nel quale le immagini che non prescindono mai dal testo: le parole, citando Brecht, sono sempre pietre e il motore di ogni indagine sugli esseri umani è il relativismo che scaturisce da un costante, salutare e mai affaticato esercizio del dubbio come unico criterio metodologico.
Non ci sono vincitori e vinti, nei film di Farhadi e tantomeno in Un eroe, ma contrapposizioni di idee e concetti che svelano sempre qualcosa in più di quello che vediamo e che ci viene detto, tanto che perfino il titolo si può leggere in molti modi diversi e di sicuro sarebbe abbastanza limitante recepirlo solo in chiave denotativa (l’eroe del titolo si ritrova alle prese con una valanga di umiliazioni insieme al figlio, come fossimo dentro Ladri di biciclette, e alla donna che ama, ma non per questo arretra). .
La direzione d’attori, di concerto con la gestione delle prospettive e dei punti di vista, come d’abitudine non è poi meno che straordinaria e permette ai film di Farhadi di avvicinarsi alla statura della grande letteratura e di certi classici destinati a durare nel tempo: è cinema limpido e scrupoloso, che non si trincera mai dietro vani arzigogoli e parla a un pubblico vastissimo, senza dissimulare alcun artificio e provvedendo a mettere sul banco degli “imputati”, prima che gli esseri umani, i loro dilemmi e chiaroscuri.
Foto: AmirhosseinShojaei
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