Il ciclone Bill Murray si è finalmente abbattuto sulla Festa del Cinema di Roma. Dopo il rinvio della conferenza stampa prevista per l’ora di pranzo, saltata all’ultimo momento perché Murray, stando a quanto riportato dal direttore Antonio Monda, era “ancora in pigiama”, l’amatissimo attore statunitense è arrivato in sala con quaranta minuti di ritardo accompagnato dal regista e amico Wes Anderson, incaricato di “moderare” l’Incontro Ravvicinato col pubblico e di consegnargli, in chiusura, il premio alla carriera.
Si è capito ben presto, però, che quella che Murray non sarebbe stata una conversazione come tutte le altre che si susseguono di giorno in giorno alla Festa. Con l’aria rilassata e l’inconfondibile e indecifrabile smorfia di esilarante durezza che da sempre cristallizza il suo volto in una maschera a dir poco peculiare – il motore tanto del suo genio comico quanto delle altrettanto riuscite interpretazioni drammatiche – l’intervento di Murray è stato preceduto da una lettera in suo omaggio scritta e letta proprio da Wes Anderson e il palco si è subito trasformato in un dialogo molto libero e quasi confidenziale tra i due.
Un tono che di fatto ha finito con l’ostacolare le traduzioni di Olga Fernando inibendo il suo ruolo, con tanto di accese proteste da parte di una giornalista presente e successivi boati del pubblico che invocava, lungo tutto l’arco dell’evento, di sentire le parole degli ospiti anche in italiano («Siamo dei veri americani aggressivi, se volete vi fate dire la traduzione dal vicino», il commento di Murray). Alla fine la questione si è risolta con una traduzione parziale dei loro discorsi: un atteggiamento che ha finito però con lo scontentare i presenti e col generare mugugni generali e piuttosto ricorrenti.
Le clip mostrate hanno attraversato tutta la carriera di Murray, da Ghostbusters a Broken Flowers passando per Tootsie, Lost in Translation e ovviamente per i tanti film che ha interpretato per Wes Anderson: Rushmore, Il treno per il Darjeeling, Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Di tanto in tanto fanno capolino anche dei video-saluti di suoi amici molto intimi, come Anjelica Huston, Tilda Swinton (in Scozia a giocare a mini-golf, gli manda un bacio e gli augura buone vacanze romane) e Jim Jarmusch, che dice, tra le altre cose: «Bill Murray meriterebbe un premio alla carriera per il solo fatto di essere Bill Murray. Ha rinvigorito il cinema indipendente americano. Può fare qualunque cosa. Bill pezzo di M…urray».
Per il presente Anderson l’attore ha solo parole al miele: «Si tratta di un regista che ti ricorda che sei ancora vivo, fa dei film come se stesse vivendo la sua stessa vita: guarda il cielo, cerca la luce giusta, si diverte come un bambino nelle pause. Sono stato davvero fortunato a lavorare con lui, Sofia Coppola e Jim Jarmusch nella seconda parte della mia carriera, ma pure la prima non ha certo scherzato. C’erano mio fratello, Jim Belushi e coloro che mi hanno lanciato. Iniziò tutto con Meatballs, film che feci con Ivan Reitman (il regista di Ghostbusters, ndr). La sceneggiatura non era un granché, ma la cambiavamo giorno dopo giorno. Pensavamo che se fosse andato male l’avrebbero visto solo in Turchia! Alla fine funzionò, ma la sera ero sempre stanco e mi mettevo ad ascoltare l’album Stardust di Willie Nelson. Era come una ninna nanna, mi addormentavo sempre prima dell’ultimo brano».
Le dichiarazioni di stima e affetto non mancano nemmeno per Jarmusch: «Anche lui è stato comprensivo con me. Quando abbiamo fatto Broken Flowers stavo attraversando un periodo difficile in famiglia, ma lui ha trovato tutte le location per poter lavorare a un’ora da casa mia. Credo sia raro che dei registi capiscano che per lavorare bene, a volte, un attore debba affrontare situazioni complicate».
Imperdibile e in pieno stile Murray, sghembo e lunare dall’inizio alla fine, l’aneddoto su un altro cineasta a lui vicino: «Il regista con cui ho preferito lavorare, a parte Wes? Roger Michell. Abbiamo girato questo film in cui facevo Roosevelt (A Royal Weekend, ndr). Lui aveva un figlio appena nato, quindi ogni giorno staccavamo alle cinque e mezza, al massimo alle sei. A Londra d’estate le giornate sono lunghe, così ogni sera facevo in tempo a tornare a casa con un tempo splendido e a godermi il tramonto. Se è questo il motivo per cui è il mio regista preferito? Be’, è una ragione come un’altra…».
Murray per tutta la durata dell’Incontro si limita a inanellare aneddoti spesso piuttosto folli e sconclusionati («A Londra si mangia bene, a Parigi si può bere buon vino a pranzo, ma siccome non mi va di mangiare solo insalate per fare la dieta sono andato a trasportare sacchi di sabbia in Himalaya», dice riferendosi al ruolo in The Rasor’s Edge): di tanto in tanto versa l’acqua alla traduttrice Olga Fernando, e canzona anche il pubblico che sbadiglia in sala, mimando “lo sbadiglio perfetto”, con tanto di movimento rotatorio della testa e bocca aperta (un gesto prontamente imitato da Anderson). A uno spettatore che prende la via dell’ingresso dice addirittura: «Vai via? Ti auguro una grande vita».
A un certo punto c’e spazio anche per un’irruzione a sorpresa di Frances McDormand, che con Murray ha recitato in Moonrise Kingdom, set sul quale a detta di Murray si lavorava come pazzi e si mangiava solo a mezzanotte, e condiviso il set della miniserie Olive Kitteridge. «È un uomo che può ferirti. Intendo, fisicamente – dice l’attrice con un black humour perfettamente in linea col resto della conversazione -. Una volta mi ha preso in braccio e mi sono quasi rotta una costola. Poi mi ha lasciata a terra. Letteralmente. Sono qui per lui perché lui c’è stato sempre per me».
Alla fine, ritirando il premio alla carriera con un pizzico di sotterranea e non troppo evidente commozione, Murray indirizza anche un messaggio a Roma, che sembra cogliere benissimo la situazione in cui la città versa da tempo: «Roma è una città bellissima, ma la parte più bella della sua storia l’hanno fatta gli altri, quelli che sono venuti prima. E i romani oggi devono avere cura di questa città, amarla. Io oggi mi sento così, come loro».
Frasi che non ti aspetteresti mai da un divo hollywoodiano qualunque, ma che da un anti-star per antonomasia come Bill Murray stupiscono fino a un certo punto. L’attore si congeda stringendo qualche mano, mentre ad aleggiare sulla sala rimane un’atmosfera divertita ma un po’ interdetta, che poi è la cifra irrinunciabile di Murray e della sua aura da sfinge che spara sketch monchi a ripetizione, il quoziente d’imprevedibilità e disagio che lo rende così unico e irripetibile: un mistero buffo, estremamente affascinante da guardare, rigorosamente impossibile da risolvere.
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