Excalibur

Carne e acciaio, amore e sangue: ecco cosa rende intramontabile l’opera di John Boorman

C’è qualcosa di profondamente ironico nel dedicare un appuntamento di questa rubrica sui classici della cinematografia all’Excalibur di John Boorman, una delle pellicole più pazze, eversive e fuori da ogni schema che vennero realizzate in quell’età confusa tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta (il film è del 1981, ma i lavori per portarlo in scena iniziarono ben prima). Ma, per quelli che come me sono cresciuti proprio in quegli anni e che Excalibur lo hanno visto decine di volte grazie a una ossessiva programmazione televisiva, non credo che faranno alcuna fatica a riconoscere al film lo stato di cult dell’immaginifico.

La sua storia produttiva in breve: nei tardi anni Sessanta, John Boorman è al lavoro su un lunghissimo script dedicato a Merlino. Gli studios lo leggono con interesse ma lo trovano troppo poco commerciale, proponendo al regista di lavorare su un libro di cui hanno acquistato i diritti da poco e che, tutto sommato, è affine a quanto vorrebbe fare il regista: Il Signore degli Anelli. Boorman ci si mette sopra e inizia a immaginare il suo film tratto dall’opera di Tolkien, ma non è troppo convinto. Intanto, per non rimanere con le mani in mano, gira quel capolavoro di Deliverance (Un tranquillo weekend di paura) e continua a baloccarsi con l’idea di cimentarsi con il ciclo arturiano. Mollato Il Signore degli Anelli, Boorman torna quindi alla carica con un nuovo script in cui sì, c’è ancora Merlino, ma che vede come protagonista assoluto Re Artù, i Cavalieri della Tavola Rotonda e, ovviamente, la spada sacra, Excalibur. Quest’idea agli studios piace parecchio di più e danno il via libera al regista inglese che può mettersi all’opera. In Excalibur, Boorman riversa molte delle idee visive che aveva iniziato ad abbozzare per l’adattamento tolkeniano ma, per quanto riguarda la storia, resta abbastanza vicino al poema in prosa del quindicesimo secolo, La morte d’Arthur, di Malory. «È un film fedele alla verità mitologica, non a quella storica», dirà il regista parlando dell’opera. Il racconto della materia di Bretagna da parte di Boorman è pervaso da un’atmosfera sognante e carnale al tempo stesso, intriso di meraviglia e di orrore, di amore e terribile violenza.

È un film che racconta di come il mondo sia uscito dalle nebbie del mito per entrare nell’età della ragione e di come la ragione non basti per comprendere il creato. È la storia di un re ferito e di un regno morente, ma anche di un cavaliere dal cuore puro che quel regno lo saprà far rinascere. Un film sulla fede in Dio e sulla fede negli uomini.

Ma, più che altro, è un’opera che vive del suo potentissimo e delirante impianto visivo, figlio della evocativa, pazza e sperimentale fotografia di Alex Thomson, degli straordinari costumi di Bob Ringwood, delle pazzesche armature create da Terry English e, soprattutto, di quella capacità di Boorman di accostare la bellezza più pura e naturale alla violenza, la carne all’acciaio, l’amore al sangue. Un gusto che pervade gran parte delle opere più felici di questo grande regista, oggi un poco dimenticato. Ma Excalibur è anche il fortunato figlio di un’epoca di estrema confusione in cui il cinema cercava di reinventarsi, senza sapere bene che strada prendere, dove lo Star Wars di George Lucas aveva cambiato tutto ma non era chiaro ancora in che modo e maniera. E allora, le produzioni e gli studios esploravano il linguaggio e i generi, facevano esperimenti e si assumevano dei rischi, anche grossi, alle volte.

Un film come l’Excalibur di Boorman non sarebbe stato possibile pochi anni prima (per i limiti della tecnologia) e lo sarebbe stato ancora meno pochi anni dopo (per le leggi del mercato), ed è una fortuna che abbia trovato il suo spazio in quella ristretta finestra di tempo in cui il cinema ha potuto godere dei vantaggi di una profonda rivoluzione nei mezzi tecnici e di una grande libertà artistica. Oggi, un film del genere, così scomodo e spiazzante sotto ogni punto di vista, sarebbe impossibile. Ed è un gran peccato.

3 Motivi per definirlo un classico

– Le armature e i costumi

– Il folle e maestoso impianto visivo

– “Anál nathrach, orth’ bháis’s bethad, do chél dénmha”

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© Cinema ‘84, Orion Pictures

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