Cinque domande a Richard Linklater

Se pensate di aver già visto tutto sul grande schermo, allora non conoscete Richard Linklater. La realizzazione del suo ultimo film, Boyhood, è durata ben dodici anni, il tempo di seguire la crescita di un ragazzo anno dopo anno. Ma tutto il suo cinema è costellato di imprese apparentemente folli, dove quel che conta è raccontare una storia

Da Jack Black a Philip K. Dick, partendo dalla sperimentazione di Slacker e passando per la trilogia parlata dei tre Before: parla Richard Linklater, uno degli autori più eclettici e imprevedibili degli ultimi anni.

Best Movie: Perchè sei così attratto nel seguire i personaggi durante il corso degli anni?
Richard Linklater: «Non lo so… ogni film potrebbe avere un sequel. Il cliché vorrebbe essere quello del “Non c’è mai un inizio o una fine”. Ed è un po’ quello che vale anche per i personaggi. Dopo tutti i film che ho fatto, che cosa staranno facendo loro adesso? Ti senti come se stessero vivendo in un universo parallelo, ed è stato divertente – come nei film di Before – andarli a ritrovare».

BM: A livello logistico quanto è stato complicato organizzare il tutto?
RL: «Ogni cosa riguardo questo progetto appariva tecnicamente impossibile o, al meglio, veramente, veramente impraticabile. Così è stata una sfida enorme. Mi incontrai con i pochi produttori che sapevo potessero avere un po’ di sodi, ma loro erano più del tipo “Grande idea, ma quindi noi non avremo un ritorno economico prima di dodici anni? Si potrebbe mostrarne una piccola parte in TV ogni tre anni?” E io tipo “No, è un film!”. Non si sarebbero potuti fasciare la testa questa volta. Loro mi dicevano “Noi non siamo una banca. Non possiamo far semplicemente uscire soldi”. E io gli rispondevo “Bene, forse però dovresti fare il banchiere. Se vuoi raccontare una storia, allora sali a bordo!».

BM: E avevi un Piano B nel caso qualcuno degli attori avesse smesso di recitare?
RL: «No, non c’era piano di salvataggio! Quei pensieri attraversano vagamente la tua mente ma tu non ci vai veramente. Avevamo una grande fede nel progetto. Non so perché. Penso che tutti credevano nella missione del film. Io stavo solo provando a renderlo realtà. Questa è stata la parte dura. Molto meno immaginare gli oscuri scenari che sarebbero potuti accadere».

BM: Qual è la storia d’amore tra te e Ethan Hawke?
RL: «Penso che sia un compagno, come un fratello. Il nostro rapporto si è semplicemente evoluto. Saranno passati vent’anni da quando ci stavamo preparando per girare assieme a Vienna, nell’estate del ’94. Ne stavamo parlando. Non penso che avremmo mai previsto allora di lavorare assieme per sette volte o tutto ciò. Ma è andata così. E ho lavorato con un gran numero di attori in questi anni».

BM: Ti senti molto triste ora che tutto è finito?
RL: «Dolceamaro. Non è tristezza. Non mi sono mai sentito triste, perchè era troppo soddisfacente. Ma eravamo ben consapevoli della sua fine. L’ultimo ciak è stato l’ultima scena del film. È stato come “Wow, è finito. Ma non lo è. Ora è fuori di qui”. È passato a un altro livello. Basta che venga visto da un pubblico, come ora è alle nostre spalle».

BM: Non c’è nessuno, che tu conosci, che abbia mai tentato di fare una cosa come questa?
RL: «Questa è una buona domanda. Sembrerebbe ovvia. Non è un’idea così semplice? Lo è veramente. Un’idea tanto semplice quanto poco praticabile! Quindi io ho potuto vedere quello che non è accaduto. Quando sei un ragazzo e pensi di avere una filosofia, e poi leggi un vero filosofo e realizzi di essere indietro di centinaia d’anni da lui… così io non penso di essere un grande per quanto concerne l’originalità, perchè penso che ogni cosa abbia un precedente. Noi non siamo così unici! Ma chiedo a me stesso: “Bene, questo non l’ho mai visto in un film. Non penso che sia mai stato fatto”. Questa lento, continuo sviluppo non l’ho mai visto».

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