La settantesima edizione del Festival di Cannes si è aperta con Ismael’s Ghost di Arnaud Desplechin. L’ultimo film dell’autore, I miei giorni più belli, nel 2015 era finito alla Quinzaine, dove aveva ottenuto recensioni clamorose e un buon numero di premi, e l’apertura di questa edizione celebrativa è sembrata a molti una specie di risarcimento.
Di Ismael’s Ghost è complicato parlare perché il cinema di Desplechin è stratificato, autoreferenziale e interconnesso un film dopo l’altro. C’è un nome che ritorna, Dédalus, alter ego del regista preso in prestito dai libri di James Joyce. Di storia in storia Dédalus ha cambiato ruolo e professione ma non interprete, Mathieu Amalric: il suo volto e la sua indole sono la traccia biografica tra finzione e realtà che tiene insieme la filmografia del regista.
In Ismael’s Ghost tornano tutte le passioni romanzesche di Desplechin, la spy story e il melodramma, mentre la figura di Dédelus slitta ancora, è un personaggio misterioso e sfuggente dentro il film nel film, quello che il protagonista – interpretato da Amalric ma chiamato Ismaël Vuillard – sta girando dietro la cinepresa. Lo stesso Ismael interrompe le riprese quando nella sua casa al mare, quella dove lavora e spesso vive assieme alla compagna Sylvie (Charlotte Gainsbourg), fa ritorno Carlotta (Marion Cotillard), scomparsa misteriosamente 21 anni prima e infine dichiarata morta. Carlotta che di cognome fa Bloom, come la Molly Bloom dell’Ulisse di Joyce…
Difficilissimo consigliare il film, sempre che trovi distribuzione in Italia, non tanto per l’eccesso di ambizioni o la sua qualità un po’ autistica, ma perché è l’oggetto di una cinefilia che porta con sé sacre tradizioni (la Nouvelle Vague) e relativa attitudine sperimentale. E poi perché oscilla avanti e indietro nel tempo (il presente e il passato di Ismaël) e dentro e fuori una doppia finzione (film, e film nel film) – cioè è costruito su un movimento addirittura quadruplo.
Se vi viene il mal di testa solo a pensarci, considerate un’altra ipotesi di visione: Desplechin gira con naturalezza stupefacente tutte le complicazioni che si crea, è come un giocoliere che non mostra una sola ruga di concentrazione, c’è un’armonia commovente nel suo lavoro che tocca corde profonde nello spettatore. C’è bisogno di pazienza e disponibilità all’incomprensione, ai molti cambi di registro, alla sensazione che importi tutto e niente. Se si trova il bandolo della matassa, il piacere è di quelli non comuni.
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