Gaspar Noé ha la fama di essere un provocatore, e se l’è guadagnata decisamente sul campo. Tutti i suoi film, dal controverso Irréversible con Monica Bellucci e Vincent Cassel all’ultimo Climax, passando per lo psichedelico Enter the Void e il pornografico Love, sono guanti di sfida lanciati al buon senso e al bon ton, per smontare entrambi dal di dentro e farli a pezzi a suon di azioni cinematografiche plateali, ora funamboliche ora cialtrone.
Noé, cineasta franco-argentino, è un habitué e un grande amico del Festival di Cannes, dov’è tornato spesso. E proprio sulla Croisette, nella cornice di una proiezione di mezzanotte, ha mostrato ieri sera la sua ultima fatica, accolta con lo stesso calore tanto da coloro che lo considerano un beniamino e un ragazzaccio irresistibile quanto da coloro – non sono pochi – che lo detestano cordialmente.
Il film in questione, Lux Aeterna, è in realtà un mediometraggio e dunque un progetto poco canonico e non ufficiale, della durata di appena 50 minuti. L’ha girato in scioltezza e velocità, caratteristiche entrambe ben evidenti al cospetto del prodotto finito, e il formato breve gli ha senz’altro giovato: il film è un’amichevole dissertazione sul cinema, che lancia un messaggio ben preciso sul futuro della settima arte, appassionato e speranzoso. In maniera concisa e con una vocazione formale che tuttavia tende in maniera evidente verso una cifra sperimentale.
Nel primo blocco di Lux Aeterna vediamo l’attrice francese Béatrice Dalle dialogare con Charlotte Gainsbourg, musa di Lars von Trier e interprete che ha certo bisogno di presentazioni: le due si confrontano amabilmente parlando di sesso ed eiaculazioni, droga e aneddotica, noia e prevedibilità del cinema commerciale, produttori italiani fissati con tutto ciò che è sexy e via discorrendo. Sembra uno scambio di buffetti tra vecchie amiche, sfacciato e divertentissimo, e Noé lo filma in split screen (soluzione visiva che adora), mostrandoci contemporaneamente la reazione dell’una e dell’altra, con una vena colloquiale che s’immerge in un salotto cupo e maledetto, illuminato a fuoco.
Il resto del film, che dietro l’oltranzismo cinefilo di grana grossissima e l’evidente maledettismo dell’autore non nasconde la committenza (è prodotto, a fini promozionali, da Saint Laurent, che veste gli attori di abiti pregevoli) e si abbandona piacevolmente a citazioni assolutiste sulla grandezza del cinema che Noé abbraccia in pieno. Scomodando alternativamente Dreyer e Godard, Buñuel e Fassbinder (chiamati per nome: Jean-Luc, Rainer W.) e tirando in ballo, da inguaribile e scatenato narcisista, se stesso e le derive farsesche e pirotecniche che il suo pubblico si aspetta da lui: dalle ovvietà (“grazie a Dio sono ateo”) a a un’escalation di confusione e torrenziale anarchia che mostra il cinema come dietro le quinte e backstage isterico, perenne, perfino insostenibile.
A fare da collante ci sono le streghe e le loro danze da mettere in scena, l’Opera d’Arte Cinematografica nella sua totalità (e con ampio abbondare di maiuscole), la bella fotografia del DOP belga Benoît Debie, collaboratore fisso di Noé e sodale anche di Harmony Korine, e pure alcune apparizioni di suoi attori prediletti, come il Karl Glusman di Love. Il risultato è una bagattella sotto acidi e piena zeppa dei neon tanto cari al regista che, senza nessuna pretesta e a suon di bombardamenti audiovisivi, non manca di augurare al cinema lunga vita, amore imperituro e gloria eterna. Scolpendo tali ottimistiche ma necessarie promesse ciò nella luce e nella prospettiva, naturalmente prive di mezze misure, a lui più care. E tanto basta.
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