Cane di paglia

Ecco perché il film di Sam Peckinpah rappresenta un punto di svolta epocale

Non è semplice raccontare in uno spazio limitato la vita e le opere di un regista come Sam Peckinpah. Servirebbe un libro, anzi, più di uno. Fortunatamente, di testi sul regista californiano, ne esistono molti (tra i recenti vi consigliamo Se si muovono… falli secchi! di David Weddle, edito in Italia per Minimum Fax), cosa che ci permette di riassumere in maniera sintetica le ragioni per cui un regista come Peckinpah, intimamente legato al mito della frontiera americana, si ritrovò a girare un piccolo film, con una grande star, in Cornovaglia. Per farla davvero breve, perché Peckinpah beveva, aveva un brutto carattere e amava andare contro tutto e tutti, a cominciare dal pubblico. E così, dopo aver girato un insperato successo di critica e pubblico come Il mucchio selvaggio ed essere tornato nelle grazie degli Studios, invece di accettare i contratti che gli venivano offerti per Un tranquillo weekend di paura o Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, decise di mettersi a girare un film assolutamente antitetico rispetto al suo ultimo grande successo: La ballata di Cable Hogue.

Si tratta di un delizioso western crepuscolare e intimista, che al tuonare delle pistole preferisce i gesti silenziosi di una complessa e dolente umanità. La pellicola non solo scontenta il pubblico in cerca del “tocco alla Sam Peckinpah” (cioè quel suo uso estremo della violenza), ma anche i produttori, che mal sopportano le bizze del regista (il vecchio Sam si presenta sul set spesso ubriaco, licenzia metà del cast tecnico durante le riprese e, cosa più grave di tutte, sfora il budget). Cable Hogue piace ai critici (giustamente perché è un gioiello) ma è uno dei tanti film con cui il regista si distrugge la carriera dopo averla miracolosamente rilanciata. Letteralmente con il “culo per terra” (parole del vecchio Sam, noi non ci permetteremmo mai), il regista accetta di girare un piccolo film per la ABC Pictures dal titolo Cane di paglia, basato su un romanzo mediocre (che Peckinpah ignora bellamente in fase di scrittura della sceneggiatura) ma con una giovane star interessata a interpretarlo: Dustin Hoffman.

La storia è presto detta: uno studioso americano si reca con la giovane moglie inglese a vivere nel villaggio natale di lei. Sin da subito però, l’ex-fidanzato della sposina (e i suoi compari) iniziano a molestare la donna che cerca di spingere il marito, sin troppo mite, a reagire e a difenderla. Le cose precipitano dopo una battuta di caccia, uno stupro e uno sfortunato omicidio. Finisce con un assedio e un bagno di sangue. Sulla carta, sarebbe un thriller basato sull’idea di un pacifista che viene costretto dagli eventi a reagire e ad abbracciare la violenza insita nel genere umano. Questa materia, nelle mani di Sam Peckinpah, diventa un magma incandescente attraverso cui il regista esplora il complesso dualismo dell’animo umano e le ipocrisie della società, andando contro ogni perbenistica convinzione e, soprattutto, contro il sentire comune del tempo. Il risultato è che nel 1971, con il movimento femminista e quello pacifista a manifestare nelle strade, Sam Peckinpah manda nelle sale una pellicola che ci mostra una figura femminile a dir poco controversa, uno stupro decisamente ambiguo e un protagonista maschile che sembra volerci dire che sotto la nostra patina di strutturata civiltà, siamo sempre degli animali pronti a uccidere pur di proteggere quello che riteniamo nostro.

Inutile dire che il film non incontra il plauso della critica allineata del periodo, che lo boccia irrimediabilmente come una pellicola maschilista, fascista, reazionaria, sadica e inutilmente violenta. Va meglio al botteghino (nonostante la pellicola venga vietata ai minori in molte nazioni e pesantemente censurata e la prima versione integrale realmente a disposizione del pubblico sia del 2002), cosa che permette a Peckinpah di continuare a lavorare e di produrre qualche altro grande film prima di condannarsi per sempre al suo inferno personale e, infine, di morire a cinquantanove anni per un attacco di cuore, provocato dall’eccesso di alcol, di fumo e di risentimento. Oggi Cane di paglia viene indicato come uno degli apici dell’opera del regista e come un film seminale in senso assoluto. Nessuno arriva a dire che non sia un film controverso o scomodo, ma queste caratteristiche vengono segnalate per sottolineare la complessità morale che il film porta in scena con un coraggio provocatorio senza eguali e attraverso un linguaggio filmico semplicemente straordinario.

3 MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO

  • La scena della battuta di caccia (montata in parallelo con quella dello stupro), che trae La sua ispirazione da un momento analogo del bellissimo La caza di Carlos
  • L’assedio finale, che evoca tutti gli assedi al fortino del cinema western americano, pervertendoli.
  • Un film urticante, scomodo e controcorrente oggi come allora. forse ancora più oggi di allora.

©  American Broadcasting Company (ABC), Talent Associates, Amerbroco Productions

© RIPRODUZIONE RISERVATA