La teoria della transenna

Ho cambiato psicologo. Lui dice che devo ritrovare entusiasmo. Che devo amare di più quello che faccio. Che devo goderne, perché vale la pena. Mi sa che cambio anche lui. Che non ha mai visto un mio film ma che sapeva benissimo che mestiere facessi.

Perché? Questa è la domanda che mi faccio. Mi ricordo, non so nemmeno se già ve l’ho raccontato, quando conducevo Il volo in diretta su Rai3 in terza serata qualche anno fa, ma lo facevo solo il venerdì, nella seconda parte del programma. In realtà era tutta una cosa di Fabio Volo, io arrivavo il fine settimana a dire a tutti di spegnere la Tv e uscire, fare altro.

Era il 2012 e io già ci vedevo lungo. Ma vabbè. Io facevo delle interviste, un po’ a chi mi pareva, e ogni volta sceglievo super nomi di personaggi che amavo, che volevo conoscere a tutti i costi, che avevano avuto per me un valore, e capivo il mondo meglio di prima: è stata una specie di uso privato del servizio pubblico. Spero sia caduto in prescrizione.

Uno di questi super personaggi fu Umberto Pizzi, uno (se non il) dei più grandi paparazzi della storia del nostro Paese. Lui mi spiegò la sua “teoria della transenna”: anni fa la transenna divideva il “pubblico” dalla “star”. Questo creava un distacco e un rispetto, oltre che un’aura di “grandezza”, che permetteva al nostro cinema di avere uno star   system straordinario. Oggi, diceva lui, la transenna non divide, ma viene vista come un elemento di passaggio: oggi lì ci sei tu ma domani potrei esserci io, perché ieri tu eri come me.

Ecco. Il mio psicologo sa che faccio l’attore, ma non avendo mai visto un mio film non sa “come”. E allora lasciatemi sorridere quando qualcuno mi chiede la foto e poi mi chiede come mi chiamo. Siamo diventati un tag da leggere in una stories, restando delusi poi dal numero di follower che andremo a contattare: ho fatto foto con ragazzi che portavano loro follower a me. E va benissimo, eh. Ma la fame di consenso è perfetta per gli influencer. Io non ho beveroni da sponsorizzare o codici sconto da regalare. Ho un talento diverso.

Eccolo, il mio entusiasmo, caro il  mio psicologo nuovo: emozionare senza paura di non avere consenso. Fare film che non siano esattamente quello che si aspetta il pubblico da me. Credere che esista un posto, nel mondo, in cui qualcuno possa emozionarsi guardando me che recito. Provarci, almeno. Senza algoritmi che mi spieghino come. Che decidano, come. Il come, ce lo metto io. Solo così posso essere felice. Lo so che è strano, lo diceva Freud: «L’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza».

 Io voglio essere un po’ meno sicuro e un po’ più felice. Credo. Mi sa che me lo tengo, ‘sto psicologo nuovo.

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