3) La scrittura e le atmosfere

È cominciata la nuova serie targata HBO, con Woody Harrelson e Matthew McConaughey. Ecco perché, dopo appena due puntate, ve la consigliamo di cuore

Non per tornare a parlare sempre delle stesse cose, ma nel mondo solo HBO è in grado di dar vita a un luogo (della mente?) con la vividezza e la potenza che trasudano da ogni istante di True Detective. Che è, ci perdonerete un’altra banalità, una serie profondamente letteraria: la parola è sempre in primo piano, i riferimenti all’epopea letteraria statunitense del secolo scorso infiniti. Più che da serial precedenti o da questo o quel film, True Detective guarda a Cormac McCarthy e a Joe Lansdale, con una spruzzata di grandi ormai scomparsi come Faulkner o (chiediamo scusa per la lesa maestà) Steinbeck. Se di Lansdale recupera certe situazioni e soluzioni narrative filtrandole in ottica cinematografica (buddy cop, omicidi a sfondo satanico), di McCarthy ha il gusto per la descrizione quasi pittorica dei luoghi contrapposta a dialoghi e situazioni che oscillano tra il filosofico e il brillante – e la grandezza di Nic Pizzolatto, autore di tutte le sceneggiature della prima stagione, sta nell’aver capito che tra parola scritta e parola recitata ci sarà sempre e comunque una distanza incolmabile, quel problema che Harrison Ford spiegò in modo semplice e conciso a George Lucas quando, sul set di Star Wars, dichiarò che «queste frasi sono molto belle, ma a recitarle mi sento un idiota». Non che si rinunci a mettere in bocca al personaggio di McConaughey grandi monologhi sul senso della vita, ma la scelta di affidarli a quello che è chiaramente un disadattato, e di contrapporgli il pratico e concreto Hart di Woody Harrelson, ne stempera la portata drammatica e scongiura il rischio del ridicolo – quello che si corre sempre quando un poliziotto di campagna parla di trascendenza e fine del mondo.

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