Che Cary Fukunaga fosse bravo lo sapevamo dal 2009, quando debuttò con Sin Nombre. Che fosse coraggioso, invece, ce l’ha insegnato il suo Jane Eyre, rilettura del romanzo di Jane Austen con una virata gotica e spettrale à-la-Cime tempestose che dava al film una personalità inconfondibile. Che potesse fotografare con questa efficacia i paesaggi rurali di True Detective, il degrado di quella “periferia della periferia” che è la Louisiana del Sud, e che riuscisse a farlo con personalità e con uno sguardo sorprendentemente (ancora una volta) gotico e decadente piuttosto che marcio e sporco a tutti i costi, be’, è la vera sorpresa della nuova creatura HBO. Raramente se non mai si erano visti tempi così dilatati in televisione, né capita tutti i giorni di godersi campi lunghissimi, camere fisse o primi piani silenziosi in un serial.
Chiaro, stiamo parlando di HBO, che ha avuto il coraggio di mandare in onda serie come I Soprano, dove i vuoti e i silenzi contavano quanto i dialoghi e le esplosioni di violenza; ci aspettavamo che True Detective avrebbe seguito quelle orme, ma non ci aspettavamo che il regista – e, va detto, produttore esecutivo – avesse il coraggio e il talento per non limitarsi a replicare l’opera dei maestri (Walter Hill è il primo nome che viene in mente); Fukunaga prende un materiale da classico Grande Romanzo Americano e lo inietta con la sua personalità e la sua visione, popolando la sua America rurale di fantasmi, trasformando gli alberi in spettri, i rifiuti in cadaveri, le strade infinite in simboli di una terra da cui non si sfugge, che intrappola e incatena. E tutto senza ricorrere al trucchetto più semplicistico che esista in questi casi: niente claustrofobia, niente oppressione (o quasi), ma un racconto di ampio respiro e – incredibile dictu – di un’eleganza inimitabile.
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