A dieci anni dalla visita precedente, Toni Servillo torna a incontrare i giurati del festival e a #Giffoni50 si racconta a cuore aperto.
«Il messaggio più contagioso che viviamo in questa edizione – spiega – è l’amore per la vita in un momento storico che invece ci abitua alla morte. Ho avuto modo di vedere il documentario realizzato per il cinquantennale. Mi ha colpito, tra le tante, la testimonianza di Wim Wenders. Il fatto che venendo qui ha ritrovato il bambino che è in lui. Conservare lo stupore dell’infanzia è fondamentale. I giovani non sono vasi vuoti da riempire con il nostro sapere».
Dopo cinque film con Paolo Sorrentino («è stata la mano di Dio»), che sia pronto a tornare in scena per il maestro? «Dovesse chiamarmi all’ultimo momento mi faccio trovare pronto».
Intanto il 30 luglio ha terminato i ciak di Qui rido io di Mario Martone in cui veste i panni del commediografo Eduardo Scarpetta. Sul legame con il regista dice: «siamo legati da un antico rapporto di stima e di amicizia», mentre a novembre inizieranno le riprese di Dall’interno, il nuovo lavoro di Leonardo Di Costanzo, accanto ad Alba Rohrwacher e a Silvio Orlando: «È una sfida che noi che amiamo il suo cinema accettiamo con piacere».
I talenti più interessanti della nuova generazione? Non ha dubbi: Alessandro Borghi e Luca Marinelli. «Faranno molto nei prossimi venticinque anni».
Il primo amore però resta il teatro: «Come diceva Artaud deve essere contagioso. Dovrebbe raccontare un sentimento in una maniera nuova, alla quale non avevi mai pensato prima. Credo che le emozioni dal vivo siamo irripetibili. La forza del teatro è la sua libertà, ma è anche una trappola dalla quale non puoi scappare se non riesce a coinvolgere quel pubblico che Shakesperare in Antonio e Cleopatra battezza il mostro dalle mille teste. Il teatro è poesia».
Ed ecco riaffiorare la nostalgia: «Se dovessi tornare indietro con la memoria, ripenso ad Afragola. A settembre. Mi piacerebbe rivivere quella sensazione di me bambino circondato da un gineceo di nonne, zie, cugine, tutte bellissime, che cantavano e chiacchieravano mentre facevano le bottiglie di pomodoro. Era come trovarsi nel Campiello di Goldoni, un teatro di assonanze e di rimandi. Vivevo in una palazzina nell’unica strada asfaltata del paese, la cosiddetta “a via liscia” che è un po’ il mio paradiso perduto, la mia isola di Arturo dove vorrei tornare».
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