Il film Semina il vento racconta la storia di ribellione e rinascita, ambientata tra alberi d’olivo e scenari industriali del tarantino, di una giovane donna che lotta per salvare la sua terra dai parassiti, naturali e sociali.
Sinossi
Nica è una studentessa di agronomia, poco più che ventenne. Dopo tre anni d’assenza torna a casa, in un paesino vicino Taranto, e lì trova un padre sommerso dai debiti, una terra inquinata, gli ulivi devastati da un parassita. Tutti sembrano essersi arresi davanti alla vastità del disastro ecologico e suo padre aspetta solo di poter abbattere l’uliveto di famiglia per pura speculazione economica. Nica, forte di uno spirito battagliero ereditato dall’amata nonna, lotta con tutte le sue forze per salvare quegli alberi secolari. Ma l’inquinamento ormai è anche e soprattutto nella testa della gente e lei si troverà a dover affrontare ostacoli inaspettati…
Intervista al regista Danilo Caputo
Il cinema ci ha abituati a una certa immagine della Puglia, molto diversa da quella che ci proponi nel tuo film Semina il vento…
Sono cresciuto in un paesino vicino Taranto ed è lì che ritorno ogni volta. È la mia terra, la mia casa. È un posto di contrasti lancinanti. Quando all’estero dico che sono pugliese, la gente immagina che io viva in un trullo circondato dagli ulivi a pochi passi dal mare. Non è solo colpa del turismo, ma anche di luoghi comuni riproposti da un certo cinema italiano. Trovo che la verità sia più interessante. E più fotogenica. A Taranto ci sono la macchia mediterranea e le luci della fabbrica, il mare e il fumo che si perde nel cielo, i falò di primavera e le fiamme della raffineria. Ci sono anche le casette bianche, ma spesso a ridosso di palazzoni di cemento marcio. C’è tutto, bellezza e orrore, tradizioni arcaiche e industrializzazione, tutto in un solo posto. Queste immagini contrastanti fanno parte di me, le porto sotto pelle. L’attaccamento che provo per queste terre è lo stesso attaccamento che sente Nica, la protagonista di Semina il vento. Ma è un legame doloroso: fa male vedere quello che è stato fatto e che continuiamo a infliggere a questa meravigliosa terra. C’è anche la rabbia, la stessa che prova Nica. Ma la rabbia è sterile se non si unisce alla voglia di lottare per cambiare le cose, proprio come fa Nica, che immagina un futuro diverso a partire dal passato.
È per questo che c’è tanta attualità in questo film?
Sì, la realtà si intrufola nelle mie storie senza chiedermi il permesso, senza bussare alla porta. Come potrei restare indifferente con tutto quello che mi succede intorno? Qui la natura è sotto assedio…
Sotto assedio?
A dieci chilometri da casa mia c’è il più grande polo siderurgico d’Europa. “La gente preferisce morire di tumore piuttosto che di fame”, dice Nica all’inizio del film. Una frase che rispecchia una situazione drammatica, visto che dopo aver inquinato per 60 anni la fabbrica rischia adesso di chiudere lasciando senza lavoro migliaia di famiglie. Al tempo stesso, decine di milioni di ulivi stanno morendo perché infestati dalla xylella. Nessuno riesce a farci niente e il batterio continua a espandersi sempre più a nord, raggiungendo terre lontane come la Corsica e la Spagna. Come se non bastasse, le mafie approfittano della disperazione dei contadini per sversare rifiuti tossici nei loro campi in cambio di qualche soldo. Ecco perché parlo di assedio. È una vera e propria guerra alla natura.
Però, al tempo stesso, sembra che tu sia voluto andare oltre l’attualità.
La mia prima reazione è la rabbia. Ma non volevo fare un film per puntare il dito. Non volevo fare un film sull’inquinamento, né sulla xylella, né sulle ecomafie. Volevo fare un film per provare a capire come fenomeni del genere siano possibili. Così ho provato a interpretare i fatti come sintomi di qualcosa di più profondo.
E hai trovato una risposta?
Sì. L’inquinamento, le ecomafie, la spazzatura che invade le campagne, sono fenomeni collegati, sono sintomi di uno stesso paradigma. È quello che chiamo “inquinamento mentale”. Lo dice anche Paola nel film: “Qui la gente è inquinata in testa”. Solo questo può spiegare il loro comportamento.
Cosa intendi per inquinamento mentale?
È una strana patologia moderna. La ricetta è questa… Prendi un uomo, la sua testa, e convincilo che può usare la natura a suo piacimento. Poi, fagli credere che la civiltà contadina è stata un grande errore e che solo il progresso industriale potrà renderlo felice. Fai in modo che quest’uomo dimentichi tutto quello che sapeva fare in precedenza: contadini, fabbri, falegnami, tutti devono rinnegare il loro passato per lavorare in fabbrica. Una volta che il tuo uomo è diventato completamente dipendente dalla fabbrica, ora che non riesce più a immaginare una vita senza la fabbrica, digli che le promesse di felicità non potranno essere mantenute, che bisognerà fare qualche sacrificio. Rassegnato, incastrato in un angolo, quell’uomo sarà disposto ad accettare tutto per salvare il suo posto di lavoro. Sarà disposto ad avvelenare la propria terra, sarà disposto ad avvelenare se stesso. Ecco quello che chiamo inquinamento mentale.
Qual è la visione del mondo di Nica?
Nica è cresciuta con sua nonna, una che aveva fama di essere strega. È da lei che ha imparato tutto quel che sa. È da lei che ha ereditato una cultura contadina che non esiste più, perché è finita sepolta sotto i sogni dell’industrializzazione. A partire dagli anni ‘50, i valori dell’Italia industrializzata hanno rimpiazzato i vecchi valori rurali, l’italiano della tv ha cancellato i dialetti. Pratiche come la magia rurale e il tarantismo sono state etichettate come ridicole superstizioni, delle quali bisognava vergognarsi. È stata una vera e propria “mutazione antropologica”, come scriveva Pasolini già nel 1974. Ed è a partire da questa cultura estinta che Nica vuole costruire un futuro diverso. Ma la sua visione del mondo è destinata a scontrarsi con quella di suo padre. Se per Nica la natura è la fonte di ogni vita, per Demetrio non è altro che un bancomat da prosciugare. Ma Nica non si arrende. Non si rassegna. Lotta per salvare e far rinascere quelle terre. Perché la sua storia ci ricorda che in alcuni momenti bisogna lottare per cambiare le cose. È quello che, per esempio, fanno oggi le ragazze e i ragazzi del movimento Extinction Rebellion.
Nica cerca degli insetti antagonisti per fermare l’infestazione ma alla fine è lei stessa che dovrà farsi antagonista…
Sì, è esattamente così, nel film c’è un forte parallelismo tra il mondo degli insetti e il mondo degli uomini. Per me l’ulivo è più di un albero, è un simbolo al quale lego la mia identità. Da bambino mi piaceva stare sdraiato sotto un ulivo e guardare il cielo attraverso le fronde. Quindi sono profondamente toccato da questi milioni di alberi rinsecchiti dalla xylella, è un’immagine apocalittica che non smette di stringermi il cuore. Negli anni questa vicenda, anche per come è stata gestita, ha polarizzato gli animi, schierando scienziati contro attivisti e dando origine a decine di teorie complottiste. Per questo nel film abbiamo preferito non parlare direttamente di xylella, volevamo evitare di aggiungere altra confusione, volevamo evitare di dire cretinate. Non siamo scienziati. Volevamo solo parlare dell’aspetto umano della questione. Abbiamo quindi fatto tantissime ricerche per inventare una dinamica simile che fosse abbastanza credibile, quella di un pidocchio, il Liothrips Caeruleus, resistente a tutti i pesticidi. Nica, che è un’agronoma, decide di cercare un insetto che mangi il pidocchio, è quella che si chiama lotta biologica. Alla base c’è un assunto molto semplice, e cioè che in natura ogni predatore è anche la preda di qualcun altro. È un assunto dagli echi quasi mitologici, che non poteva non farci pensare al rapporto tra Nica e Demetrio, suo padre.
Il rapporto di Nica con la natura è sorprendente. In alcune scene lei sembra in grado di ascoltare suoni al limite della percezione. Come nasce quest’idea?
Fin dall’inizio della scrittura per me e la co-sceneggiatrice Milena Magnani era chiaro che Nica dovesse nutrire per la natura un amore viscerale. Solo che non sapevamo come metterlo in scena. Non volevamo che il nostro personaggio andasse in giro ad abbracciare gli alberi. Poi abbiamo capito che il suo amore verso quegli alberi doveva passare attraverso la capacità di ascoltarli. L’ascolto come forma di connessione profonda col mondo. Il crepitio delle cortecce diventa così una forma di linguaggio naturale, un ponte tra uomini e natura. Da questo punto di vista il lavoro con la montatrice Sylvie Gadmer e il sound designer Peter Albrechtsen è stato fondamentale: insieme siamo riusciti a creare una dimensione sonora che va ben oltre il realismo della presa diretta. Ci sono dei momenti nel film in cui i rumori del mondo scompaiono per fare posto al suono microscopico di qualche insetto, al sibilo di una lumaca, al cigolio di un albero. Nica ascolta il mondo e noi lo ascoltiamo con lei.
C’è qualcosa di animista nel modo in cui Nica interagisce con la natura?
Direi di sì. Credo che il primo passo per cambiare davvero le cose sia smettere di pensare alla natura come qualcosa di esterno a noi. Dobbiamo liberarci di questa visione cartesiana. Noi siamo parte della natura. Nica non vede un uliveto, vede tanti ulivi. Lei non percepisce quegli alberi come oggetti ma come soggetti, come individui capaci di sentire, desiderare, soffrire e comunicare. Quindi, sì, la sua è una visione animista. Ma, al tempo stesso, Nica è una scienziata, e la scienza contemporanea sostiene quello che l’animismo aveva intuito: gli animali, gli alberi, persino le piante più minuscole hanno una forma di vita interiore. Per questo Christos Karamanis (direttore della fotografia) e io abbiamo evitato le inquadrature totali che avrebbero schiacciato gli alberi nella totalità anonima del “paesaggio”. Invece, abbiamo inquadrato quegli alberi come se stessimo inquadrando delle persone, come se ne stessimo facendo dei ritratti. Per la stessa ragione abbiamo insistito molto sull’uso delle soggettive. Più volte nel film vediamo quello che vede la gazza, oppure sentiamo quello che sente la cripta. È un modo per affermare, cinematograficamente, che noi uomini non siamo i soli a sentire e vedere.
E il ruolo della magia?
La magia mi ha aiutato a creare un cortocircuito tra il realismo, inevitabile in una storia come questa, e la sua dimensione animista. La magia rituale era un elemento importante di quella cultura contadina che Nica ha ereditato dalla nonna, e per questo fin da subito mi sono messo a studiare Sud e magia di Ernesto de Martino. La cosa che più mi ha colpito è che i fenomeni descritti da De Martino avevano una forte ambiguità, potevano essere interpretati come eventi sovrannaturali o come fenomeni di ordine psicologico. È così che è nata l’idea della gazza. Volevo che la gazza portasse scompiglio nel mondo del film, volevo che fosse ambigua, che ci si chiedesse se è solo una gazza o qualcosa di più. Ma non c’è solo la magia, superare il naturalismo è stata una delle grandi sfide del film. Anche le musiche di Valerio Camporini F. giocano un ruolo essenziale in questo senso, rafforzando la dimensione enigmatica del racconto, evocando un qualcosa che si cela oltre apparenze.
Yile Yara Vianello, l’attrice che interpreta Nica, illumina il film. Da dove viene e come hai lavorato con lei?
Abbiamo cercato la nostra Nica per più di due anni. L’abbiamo cercata tra le agenzie, nelle scuole di recitazione, nelle università, per strada, nei bar, nei circoli, ovunque. Non riuscivamo a trovarla. Poi a Marianne Dumoulin e Jacques Bidou è venuta in mente Yile, che a soli 11 anni aveva interpretato la protagonista di Corpo Celeste di Alice Rohrwacher, che loro avevano coprodotto. Quando ho incontrato Yile, che adesso ha 20 anni, ho capito subito che non era come il personaggio che avevo sempre immaginato, era molto di più. La mia Nica era un personaggio più severo, senza dubbi, senza esitazioni, un personaggio probabilmente noioso. Invece Yile ha prestato a Nica una vita interiore ricchissima, le ha prestato i suoi tempi, le sue esitazioni. Yile è cresciuta in una comunità alternativa isolata tra le montagne e ha un rapporto davvero intimo con la natura. C’è qualcosa nel suo modo di sfiorare quegli alberi che nessun’altra attrice avrebbe potuto darci.
C’è un passaggio nella tua biografia in cui si dice che hai fatto il postino a Parigi… Com’è andata?
È una storia lunga, lunga come i cinque anni che ci sono voluti perché questo film venisse alla luce. Nel 2014 dopo aver terminato La Mezza Stagione, il mio primo lungometraggio, mi sono ritrovato senza un soldo e senza bene sapere cosa fare. Ho deciso di fare un salto a Parigi e il giorno dopo esserci arrivato ho trovato lavoro come postino, in una città che non conoscevo e in una lingua che avevo studiato solo da autodidatta. È stata un’esperienza surreale. In quegli stessi mesi ho steso un primo trattamento di Semina il vento. Konstantina Stavrianou, produttrice greca con la quale avevo già lavorato, mi ha messo in contatto con i parigini Jacques Bidou e Marianne Dumoulin. Loro hanno creduto nel progetto sin da quel primo trattamento, coinvolgendo immediatamente Paolo Benzi. Devo ammettere che, come tanti registi, all’inizio vedevo i produttori come un male necessario. Invece nell’arco di questi anni tra di noi si è sviluppata un’intensa collaborazione artistica, oltre che una sincera amicizia. Ho scoperto così che i miei produttori non erano dei nemici, ma i miei migliori alleati…
Semina il vento è il tuo secondo film, selezionato al festival di Berlino. Come immagini il tuo futuro?
Mi sono rimesso a scrivere. E come al solito l’attualità si è autoinvitata nelle mie storie. La situazione, in Italia come altrove, non è per niente semplice. Tutt’intorno sento tanta rassegnazione, un’inerzia che a volte mi si appiccica addosso. Si finisce sempre per abituarsi a tutto, anche al peggio, ed è questo che mi fa paura. Invece se c’è una cosa che mi accomuna a Nica è che, come lei non riesco ad accettare che le cose non possano andare altrimenti, che non ci sia niente che possiamo fare. Sono testardo, e vorrei fare un film testardo come me.
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