Black Mirror 5, ritratto di una serie in crisi. La recensione

Non c'è quasi più alcuna traccia del capolavoro di Charlie Brooker in questa stagione, se non qualche stanca ripetizione degli stessi schemi

Recensione

Ricordate Black Mirror che esordiva con un disturbante racconto sul rapporto tra media e politica, in cui il Primo Ministro britannico si sentiva costretto ad avere un rapporto sessuale con un maiale a schermi unificati? O anche la puntata sulla rigenerazione di un amore attraverso l’inserimento della personalità del partner defunto all’interno di un corpo artificiale? Ecco, quella potenza, quella capacità di scuotere lo spettatore, Black Mirror non ce l’ha più.

Il ritorno al formato da tre episodi sembrava annunciare un ritorno al passato, l’allontanamento da alcune caratteristiche non troppo apprezzate delle stagioni tre e quattro, nella speranza di riportare il sorriso sui volti di quei (tanti) fan che negli ultimi anni avevano storto il naso di fronte alla Black Mirror targata Netflix.

A ben vedere e stando anche alle dichiarazioni degli showrunner Annabelle Jones e Charlie Brooker, la quinta stagione presenta soli tre episodi perché è stata pensata insieme all’episodio speciale “Bandersnatch”, arrivato su Netflix alla fine dello scorso anno. In quel caso per rendere il più coinvolgente possibile l’esperimento interattivo sono state pensate tante linee narrative (sebbene non abbastanza, secondo alcuni), creando potenzialmente materiale per diversi episodi.

I tre episodi di questa quinta annata, purtroppo, lasciano tutti l’amaro in bocca, sia perché sono distanti dal concept originario di Black Mirror, sia perché non si avvicinano minimamente agli standard qualitativi a cui la serie ci aveva abituato.
In un caso, infatti, si intravede la grandezza di un tempo ma si rimane frustrati per via di una complessità soltanto potenziale; in un altro la prevedibilità, la semplicità e la distanza dall’identità di Black Mirror danno vita a un episodio anonimo; nell’ultimo, invece, la rimasticazione di idee già sviluppate dà la sensazione di una serie che non sa più reinventarsi.

Andando più nel dettaglio, il primo episodio della stagione, intitolato “Striking Vipers”, è caratterizzato da un’ottima idea di partenza che vede il protagonista (interpretato da Andrew Mackie, noto per il ruolo di Falcon negli Avengers) sviluppare un rapporto sempre più ambiguo con il proprio migliore amico, soprattutto grazie a un videogioco particolarmente immersivo e in grado di modificare il genere dei personaggi.
Purtroppo però, invece di ragionare sulla fluidità di genere e sul rapporto tra quest’ultima e il confine tra reale e virtuale, l’episodio diventa una riflessione sul matrimonio eterosessuale e sulle trasgressioni da cui si è sedotti.

“Smithereens” è il secondo tassello narrativo stagionale, il più lungo dei tre e forse quello che fa maggiore affidamento sugli attori. In particolare, per quasi tutto il minutaggio la puntata è sorretta dal talento di Andrew Scott, eccellente interprete già visto in Sherlock nei panni di Moriarty e nella seconda e ultima stagione di Fleabag. Il problema è che oltre all’interpretazione del protagonista c’è ben poco, perché la pericolosità della dipendenza dai device mobili è tutto eccetto un’idea illuminante e soprattutto ciò che succede non ha nulla a che vedere con la pervasività tecnologica ma solo con una crisi in tutto e per tutto umana.

Il terzo e ultimo episodio della stagione, in maniera antitetica rispetto al precedente, si concentra su un’idea già ampiamente utilizzata sia dalla fantascienza contemporanea sia dalla stessa Black Mirror, perché la migrazione della personalità di un individuo in un involucro artificiale era già stata sviluppata in maniera infinitamente più complessa in “Be Right Back”. Questo “Rachel, Jack and Ashley Too” è stato l’episodio protagonista della campagna promozionale della stagione per via della presenza di Miley Cyrus e sebbene non racconti nulla di originale riesce a essere lo specchio migliore della Black Mirror di questi ultimi anni: idee molto semplici (o già viste) e sviluppate in un modo meno cupo, che in questo caso si aggira dalle parti della favola e del coming of age.

Non si può che rimanere delusi dalla quinta stagione di Black Mirror, soprattutto perché stiamo parlando di una serie che un tempo scuoteva realmente gli immaginari prefigurando un futuro prossimo terribile e incredibilmente profetico, mentre in quest’ultima stagione sembra aver per quasi ogni traccia della sua inconfondibile identità.

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